Tirò fuori dalla tasca il telecomando. Stava per azionarlo, quando una voce lo colpì alle spalle:
«Sei sicuro di non dimenticare niente?»
Si voltò e scorse una creatura nera e bianca, chiusa in un cappotto di velluto, a qualche metro da lui.
Anna Heymes.
Avvertì dapprima un’ondata di rabbia. Pensò a un uccello del malaugurio, a una maledizione che lo inseguiva. Ma si ricredette immediatamente: «Consegnarla a loro», si disse. «Consegnarla a loro è la tua sola salvezza.»
Lasciò la sua sacca e assunse un tono tranquillizzante:
«Anna, santo cielo, dov’eri? Ti stanno cercando tutti.»
Avanzò aprendo le braccia.
«Hai fatto bene a venire da me. Tu…»
«Non ti muovere.»
Si bloccò e lentamente, molto lentamente, si girò verso la nuova voce. Un’altra sagoma si staccò dalla colonna alla sua destra. Sentì un tale sbalordimento che la sua voce si fece rauca. Alla superficie della sua memoria stavano affiorando dei ricordi confusi. Conosceva quella donna.
«Mathilde?»
Lei si avvicinò senza rispondere. Con lo stesso tono inebetito ripeté:
«Mathilde Wilcrau?»
Mathilde si piantò davanti a lui, stringendo una pistola automatica nella mano guantata. Lui balbettò, passando lo sguardo dall’una all’altra:
«Voi… voi vi conoscete?»
«Quando non ci si fida più del neurologo dove si va? Dallo psichiatra.»
Come un tempo, lei allungava le sillabe in ondulazioni gravi. Come dimenticare quella voce? La sua bocca fu inondata da un fiotto di saliva. Una fanghiglia che aveva lo stesso gusto dell’aria puzzolente di poco prima. Questa volta lo identificò: era il gusto della paura; acre, profondo, malefico. Ed era lui la sorgente di quel gusto e di quell’odore. Lo trasudava da ogni poro della sua pelle.
«Mi avete seguito? Cosa volete?»
Anna si avvicinò. I suoi occhi indaco brillavano nella luce verdastra del parcheggio. Due occhi scuri come l’oceano, allungati, quasi asiatici. Sorridendo disse:
«Secondo te?»
Nel campo delle neuroscienze, della neuropsicologia e della psicologia cognitiva io sono il migliore al mondo, o quantomeno uno dei migliori. Non è vanità, è semplicemente un fatto riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale. A cinquantadue anni sono quello che si dice un luminare, un punto di riferimento.
E tuttavia, sono diventato veramente importante quando ho abbandonato il mondo scientifico, quando sono uscito dai sentieri battuti per perdermi lungo una strada proibita. Solo in quel momento sono diventato un ricercatore importante, un pioniere che segnerà un’epoca.
Peccato che per me sia ormai troppo tardi…
Marzo 1994
Al termine di sedici mesi di esperimenti di tomografia sulla memoria, terza fase del programma «Memoria personale e memoria culturale», il ripetersi di certe anomalie mi induce a contattare i laboratori che, nell’ambito delle loro ricerche, utilizzano lo stesso tracciante radioattivo usato dalla mia équipe: l’Ossigeno-15.
Risposta unanime: non hanno notato niente di strano.
Non significa che io mi stia sbagliando. Significa che inoculo ai miei soggetti delle dosi superiori e che la particolarità dei miei risultati deriva proprio da quel dosaggio. Intuisco una verità: ho superato una soglia e quella soglia ha rivelato il potere della sostanza.
È troppo presto per pubblicare qualcosa. Mi accontento di redigere un rapporto e un bilancio della stagione appena trascorsa e lo invio ai miei finanziatori, il Commissariato per l’energia atomica. Nell’ultima pagina di una nota allegata, menziono il ripetersi di fatti originali notati nel corso dei test. Fatti che concernono l’influenza indiretta dell’O-15 sul cervello umano e che meriterebbero di essere oggetto di un programma specifico.
La reazione è immediata. Nel mese di maggio vengo convocato presso la sede del CEA. In una grande sala conferenze trovo ad attendermi una decina di specialisti. Capelli a spazzola, modi marziali: li riconosco alla prima occhiata. Sono i militari che mi hanno ricevuto due anni prima, quando ho presentato per la prima volta il mio programma di ricerca.
Comincio la mia relazione, con ordine:
«Il principio della tomografia a emissione di positroni consiste nell’iniettare un tracciante radioattivo nel sangue del soggetto. In quanto radioattivo, emette dei positroni che la camera capta in tempo reale, permettendo così di localizzare l’attività cerebrale. Per quanto mi concerne, io ho scelto un isotopo radioattivo classico, l’Ossigeno-15, e…»
Una voce mi interrompe:
«Nella sua nota lei parla di anomalie. Venga al dunque: che cos’è successo?»
«Ho constatato che, dopo i test, i soggetti confondevano i loro ricordi con gli aneddoti che erano stati loro raccontati durante la seduta.»
«Sia più preciso.»
«Diversi esercizi del mio protocollo consistono nella narrazione di storie immaginarie, piccoli fatti inventati che il soggetto deve poi riassumere oralmente. Dopo i test, i soggetti parlavano di quelle storie come di fatti veri. Erano tutti convinti di aver vissuto realmente quelle narrazioni.»
«Lei pensa che sia stato l’utilizzo dell’O-15 a provocare questo fenomeno?»
«Suppongo di sì. La camera a positroni non può avere effetto sullo stato cosciente: è una tecnica non invasiva. L’O-15 è il solo prodotto somministrato al soggetto.»
«Come spiega questa influenza?»
«Non la spiego. Può essere l’impatto della radioattività sui neuroni. O un effetto della molecola stessa sui neurotrasmettitori. È come se l’esperimento esaltasse la funzione del sistema cognitivo, rendendolo permeabile alle informazioni incontrate durante il test. Il cervello non sa più fare la differenza tra i dati immaginati e la realtà vissuta.»
«Lei pensa che sia possibile, grazie a questa sostanza, impiantare nella mente di un soggetto dei ricordi, diciamo… artificiali?»
«È molto più complesso di quanto…»
«Pensa che sia possibile o no?»
«Sì, si potrebbe pensare di lavorare in questa direzione.»
Silenzio. Un’altra voce:
«Durante la sua carriera, lei ha lavorato sulle tecniche di lavaggio del cervello, non è vero?»
Scoppio a ridere, nel vano tentativo di smorzare l’atmosfera da inquisizione:
«È stato più di vent’anni fa. Era per la mia tesi di dottorato!»
«Ha seguito i progressi che sono stati fatti in questo campo?»
«Più o meno, ma in questo settore ci sono molte ricerche non pubblicate. Lavori classificati come segreti di stato. Non so se…»
«Ci sono sostanze che potrebbero essere utilizzate efficacemente come paravento chimico per nascondere la memoria di un soggetto?»
«Sì, esistono diversi prodotti.»
«Quali?»
«State parlando di manipolazioni del…»
«Quali?»
Rispondo a malincuore:
«Attualmente si parla di sostanze come il GBH, il gamma-hyrossibutirato. Ma per raggiungere questo tipo di obiettivi conviene ancora utilizzare un prodotto più comune: il Valium, ad esempio.»
«Perché?»
«Perché il Valium, a determinate dosi subanestestiche, provoca non solo una parziale amnesia, ma anche degli automatismi. Il paziente diventa permeabile alla suggestione. E per di più conosciamo un antidoto: il soggetto può poi ritrovare la sua memoria.»
Silenzio. La prima voce:
«Ammettendo che un soggetto abbia subito un trattamento del genere, possiamo immaginare di iniettargli nuovi ricordi grazie all’Ossigeno-15?»
«Se voi contate su di me per…»
«Sì o no?»
«Sì.»
Nuovo silenzio. Tutti gli sguardi sono fissi su di me.
«Il soggetto non si ricorderebbe di niente?»
«No.»
«Né del primo trattamento a base di Valium, né del secondo a base di Ossigeno-15?»
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