Il suo umore da cane bastonato non era dovuto solo ai suoi incubi. Era mercoledì e, come quasi ogni mercoledì, aveva dovuto chiamare Reyna di primo mattino per annunciarle che non avrebbe potuto occuparsi di Céline.
Vide Jean-Louis Schiffer, in piedi all’estremità del banco. Rasato di fresco, avvolto in un impermeabile Burberry’s, l’uomo aveva ripreso le forze. Inzuppava con sussiego un croissant nel suo caffè macchiato.
Vedendo Paul fece un gran sorriso:
«Dormito bene?»
«Splendidamente.»
Schiffer notò che sembrava uno straccio, ma si astenne da ogni commento.
«Caffè?»
Paul accettò. Immediatamente comparve sul banco un concentrato nero orlato di marrone. Il Cifra prese la tazza e indicò un tavolo vuoto, vicino alla vetrina.
«Vieni a sederti. Non sembri molto in te.»
Una volta seduto, gli porse il cestino dei croissant. Paul rifiutò. All’idea di inghiottire qualcosa, sentì dei morsi acidi risalirgli il corpo fino al petto. Ma era costretto a riconoscere che Schiffer, quel mattino, giocava il ruolo «dell’amico». A sua volta domandò:
«E lei, ha dormito bene?»
«Come un sasso.»
Paul rivide le dita tranciate, la taglierina insanguinata. Dopo il massacro, aveva riaccompagnato il Cifra fino alla Porte de Saint-Cloud, dove aveva un appartamento in rue Gudin. Da allora c’era una questione che lo rodeva:
«Se ha quell’appartamento», disse indicando di là dai vetri la piazza grigia, «che cosa ci fa a Longères?»
«Lo spirito gregario. Il gusto della sbirraglia. Da solo mi rompevo troppo.»
La spiegazione suonava un po’ falsa. Paul si ricordò che alla casa di riposo Schiffer era registrato sotto falso nome, il nome da ragazza di sua madre. La dritta gliel’aveva data un tipo dell’Ispettorato generale dei servizi. Un enigma in più. Si nascondeva, ma da chi?
«Tira fuori le schede», ordinò il Cifra.
Paul aprì il suo dossier e posò i documenti sul tavolo. Non erano gli originali. Era passato dall’ufficio, molto presto, e li aveva fotocopiati. Armato del suo dizionario di turco, aveva studiato ogni scheda. Era arrivato a capire il patronimico delle vittime e le principali informazioni che le concernevano.
La prima si chiamava Zeynep Tütengil. Lavorava in un laboratorio vicino all’hammam La Porte Bleu che apparteneva a un certo Talat Gurdilek. Ventisette anni. Sposata con Burba Tütengil. Senza figli. Domiciliata al numero 34 di rue de la Fidélité. Originaria di un villaggio dal nome impronunciabile, vicino alla città di Gaziantep, nel sud-est della Turchia. Abitava a Parigi dal settembre 2001.
La seconda si chiamava Ruya Berkes. Ventisette anni. Celibe. Lavorava a domicilio, in rue d’Enghien 58, per conto di Gozar Halman, un nome che Paul aveva visto spesso nei verbali: un negriero specializzato in pelli e pellicce. Ruya Berkes veniva da una grande città, Adana, nella Turchia del Sud. Viveva a Parigi soltanto da otto mesi.
La terza era Roukiyé Tanyol. Trent’anni. Nubile. Operaia nella fabbrica di confezioni Sürelik, con sede nel Passage de l’Industrie. Sbarcata a Parigi nell’agosto precedente. Nessun parente nella capitale. Viveva in incognito in un convitto femminile al 22 di rue des Petites-Ecuries. Come la prima vittima era nata nella provincia di Gaziantep.
Quelle informazioni non consentivano alcun controllo incrociato. Nessun punto in comune per stabilire, ad esempio, come l’assassino scovasse o avvicinasse le sue vittime. Ma soprattutto, quelle informazioni non davano alcun spessore, alcuna presenza a quelle donne. I nomi turchi non facevano altro che rafforzare il loro carattere indecifrabile. Per convincersi della loro reale esistenza, Paul aveva dovuto tornare ai ritratti fatti con la polaroid, lineamenti larghi, dai contorni lisci, che lasciavano indovinare corpi dalle rotondità generose. Aveva letto da qualche parte che i canoni di bellezza turchi corrispondevano a quelle forme, a quelle facce da luna piena…
Schiffer, con gli occhiali sul naso, aveva ripreso a studiare i dati. Paul, ancora in preda alla nausea, esitava a bere il suo caffè. Gli montavano alla testa il brusio delle voci e i tintinnii di vetro e di metallo. A rintronarlo erano soprattutto le parole degli ubriachi attaccati al banco. Non poteva sopportare quei tipi che morivano in piedi bevendo bicchiere dopo bicchiere…
Quante volte era andato a cercare i suoi genitori, insieme o separatamente, all’ombra di quei bar? Quante volte li aveva tirati su dalla schifezza di segatura e mozziconi, mentre lui stesso avrebbe voluto vomitar loro addosso?
Il Cifra si tolse gli occhiali e concluse:
«Cominciamo dal terzo laboratorio. La vittima più recente. È il modo migliore per raccogliere i ricordi più freschi. Dopo passeremo alle case, ai vicini, agli itinerari. Le avrà pur beccate da qualche parte, e nessuno è invisibile.»
Paul mandò giù il caffè in un colpo. Sentendo montare la bile, disse:
«Schiffer, glielo ripeto: al minimo casino…»
«Non rompere. Ho capito. Ma stamattina cambiamo metodo.»
Agitò le dita come se tirasse i fili di un burattino:
«Lavoriamo in maniera morbida.»
Filarono lungo la strada a grande scorrimento, il lampeggiatore in azione. Il grigio della Senna, sommato al granito del cielo e degli argini, tesseva un universo liscio e atono. A Paul piaceva quel tempo che faceva schiantare di noia e di tristezza. Un ostacolo in più da superare con la sua ferrea volontà di sbirro.
Per strada, ascoltò i messaggi sulla segreteria del suo telefonino. Il giudice Bomarzo voleva delle notizie. La voce era tesa. Concedeva a Paul ancora due giorni prima di mettere sottosopra la Brigata criminale e scegliere nuovi investigatori. Naubrel e Matkowska continuavano le loro ricerche. Avevano passato la giornata precedente dai «tubisti», quelli che scavano nelle profondità del suolo parigino, per poi sottoporsi alla decompressione nelle camere iperbariche. Avevano interrogato senza risultati i responsabili di otto società differenti. Si erano anche recati presso il principale costruttore di quelle camere iperbariche, ad Arcueil. Secondo il proprietario, l’idea di una cabina di pressurizzazione azionata da qualcuno privo di un’idonea preparazione era un’autentica assurdità. Significava che l’assassino aveva conoscenze di quel tipo o, al contrario, che erano su una strada sbagliata? Quelli della polizia giudiziaria proseguivano le loro indagini in altri campi dell’industria.
Arrivato in place du Châtelet, Paul scorse una macchina di pattuglia che si immetteva sul boulevard de Sébastopol. La raggiunse all’altezza di rue des Lombards e fece segno all’autista di fermarsi.
«Solo un minuto», disse a Schiffer.
Prese nel portaoggetti i Kinder Sorpresa e i Twix che aveva comprato un’ora prima. Nella fretta, il sacchetto di carta si ruppe rovesciando il contenuto. Paul raccolse le merendine e uscì dalla macchina, rosso di vergogna.
I poliziotti in uniforme si erano fermati e aspettavano vicino alla loro auto, con i pollici infilati nella cintura. Paul spiegò loro in fretta ciò che dovevano fare, poi girò i tacchi. Quando si sedette dietro al volante, il Cifra aveva in mano un Twix:
«Mercoledì, il giorno dei bambini.»
Paul partì, senza rispondere.
«Anch’io utilizzavo gli agenti di pattuglia come corrieri. Per portare regali alle mie amichette…»
«Alle sue “impiegate” vorrà dire.»
«È così, ragazzo. È così…»
Schiffer scartò la barra di caramello e se la ficcò in bocca:
«Quanti figli hai?»
«Ho una figlia.»
«Quanti anni?»
«Sette.»
«Come si chiama?»
«Céline.»
«Piuttosto snob per essere la figlia di uno sbirro.»
Paul era d’accordo. Non aveva mai capito perché Reyna, marxista alla ricerca dell’assoluto, aveva dato alla loro figlia quel nome chic.
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