Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Schiffer masticava con grandi colpi di mandibole:

«E la madre?»

«Siamo divorziati.»

Paul superò con il semaforo rosso la rue Réaumur.

Il suo fallimento coniugale era l’ultimo degli argomenti che voleva affrontare con Schiffer. Scorse con sollievo l’insegna rossa e gialla del McDonald’s che segnava l’inizio del boulevard de Strasbourg.

Accelerò ancora, senza dare all’altro il tempo di fargli una nuova domanda.

Stavano entrando nel loro territorio di caccia.

34.

Alle dieci del mattino, rue du Faubourg-Saint-Denis sembrava un campo di battaglia nel pieno del fuoco. La carreggiata e i marciapiedi si confondevano in un solo, frenetico torrente di passanti che si infilavano in un labirinto di veicoli bloccati e ruggenti. Il tutto sotto un cielo senza colore, teso come un telo gonfio d’acqua e pronto a lacerarsi da un momento all’altro.

Paul preferì parcheggiare all’angolo di rue des Petites-Ecuries e seguì Schiffer che già si stava aprendo un varco tra gli scatoloni trasportati sulle schiene, i fasci di abiti e i carichi oscillanti sui carretti. Presero il passage de l’Industrie e si ritrovarono sotto una volta di pietra che dava su un vicolo.

La fabbrica Sürelik era un blocco di mattoni sostenuto da un’ossatura in ferro rivettato. Sulla facciata si vedevano archi e fregi in terracotta lavorata. L’edificio, rosso vivo, traspirava una sorta d’entusiasmo, una fede gioiosa nell’avvenire industriale, come se tra quelle mura fosse appena stato inventato il motore a scoppio.

A qualche metro dalla porta, Paul prese brutalmente Schiffer per i risvolti dell’impermeabile e lo spinse sotto un’arcata, iniziando una perquisizione in piena regola, in cerca di un’arma.

Il vecchio poliziotto espresse il proprio disappunto:

«Perdi tempo, ragazzo mio. Ho detto che lavoriamo in maniera morbida.»

Paul si rialzò, senza una parola, e si diresse verso la fabbrica.

Spinsero insieme la porta di ferro ed entrarono in un grande spazio quadrato, dai muri bianchi e dal pavimento in cemento verniciato. Ogni cosa era pulita, scintillante. Le strutture di metallo verde pallido, punteggiate di rivetti bombati, rafforzavano l’impressione di solidità dell’insieme. Grandi finestre distribuivano raggi di luce obliqui, mentre le passerelle lungo i muri ricordavano i ponti di un transatlantico.

Paul si era atteso un tugurio e invece scopriva un loft da artista. Una quarantina di operai, tutti uomini, lavoravano a una certa distanza gli uni dagli altri, dietro le loro macchine da cucire, circondati da stoffe e scatole aperte. Con i loro camici, sembravano agenti del reparto trasmissioni che inviassero piani criptati durante la guerra; un radioregistratore diffondeva musica turca, mentre su un fornello crepitava una caffettiera.

Schiffer batté il tallone a terra:

«Quello che immagini è la sotto. Nelle cantine. Centinaia di operai, stretti come sardine. Tutti clandestini. Questa è solo la vetrina.»

Guidò Paul tra i banchi, passando tra i lavoranti che si sforzavano di non guardare.

«Non sono carini? Operai modello, ragazzo mio. Obbedienti. Disciplinati.»

«Perché quel tono ironico?»

«I turchi non sono dei lavoratori, sono degli approfittatori. Non sono obbedienti, sono indifferenti. Non sono disciplinati, seguono le loro regole. Dei cazzo di vampiri, hai capito? Predatori che non si prendono neanche la briga di imparare la nostra lingua… Perché dovrebbero farlo? Sono qui per guadagnare il massimo e poi battersela il più in fretta possibile. Il loro motto è: “Prendere tutto, lasciare niente”.»

Schiffer afferrò il braccio di Paul:

«È una lebbra, figlio mio.»

Paul lo respinse violentemente:

«Non mi chiami mai più così.»

L’altro alzò le mani come se Paul lo avesse minacciato con un’arma; il suo era uno sguardo di scherno. Paul ebbe voglia di strappargli dal volto quell’espressione, ma alle loro spalle risuonò una voce:

«Cosa posso fare per voi, signori?»

Un uomo tarchiato, con un camice blu impeccabile, avanzava verso di loro; sotto i baffi un sorriso untuoso.

«Signor ispettore!» disse con un tono sorpreso. «Quanto tempo non abbiamo più il piacere di vederla?»

Schiffer scoppiò a ridere. La musica era cessata. L’attività delle macchine si era fermata. Attorno a loro regnava un silenzio di morte.

«Non mi chiami più Schiffer? Non mi dai più del tu?»

In risposta alle sue parole, il capo officina rivolse uno sguardo diffidente a Paul.

«Paul Nerteaux», riprese il poliziotto. «Capitano alla Prima divisione di polizia giudiziaria. Il mio diretto superiore, ma prima di tutto un amico.»

Con aria beffarda, diede una pacca sulla schiena di Paul.

«Parlare davanti a lui è come parlare davanti a me.»

Poi avanzò verso il turco e gli circondò le spalle con il braccio. Il balletto era regolato fin nei minimi movimenti:

«Ahmid Zoltanoï», disse rivolto a Paul, «il miglior capo officina della Piccola Turchia. Rigido come il suo camice, ma un brav’uomo quando serve. Qui lo chiamano Tanoï.»

Il turco si piegò in un inchino. Da sotto le sue sopracciglia di carbone sembrava giudicare il nuovo venuto. Amico o nemico? Tornò a Schiffer, con il suo tono viscido:

«Mi avevano detto che era andato in pensione.»

«Causa di forza maggiore. Quando c’è un’urgenza chi chiamano? Lo zio Schiffer.»

«Quale urgenza, signor ispettore?»

Il Cifra spazzò dei pezzi di stoffa da un tavolo di taglio e vi posò la foto di Roukiyé Tanyol.

L’uomo si piegò, con le mani in tasca e i pollici fuori, come cani di un revolver. Pareva tenersi in equilibrio sulle pieghe inamidate del suo camice.

«Mai vista.»

Schiffer girò la polaroid. Sul bordo bianco si poteva leggere distintamente il nome della vittima e l’indirizzo dei laboratori Sürelik scritti con il pennarello indelebile.

«Marius ci è già passato. E ci passerete tutti, credimi.»

Il turco si scompose. Prese la foto controvoglia, mise gli occhiali e si concentrò:

«In effetti, mi dice qualcosa.»

«Ti dice parecchio. È qui dall’agosto 2001. Giusto?»

Tanoï posò la fotografia con precauzione.

«Sì.»

«Che lavoro faceva?»

«Operaia delle confezioni.»

«L’avevi sistemata in basso?»

Il capo officina inarcò le sopracciglia e si aggiustò gli occhiali. Dietro, gli operai avevano ripreso il lavoro. Sembravano aver capito che i poliziotti non erano lì per loro e che solo il capoccia aveva dei problemi.

«In basso?» ripeté.

«Nelle cantine», si irritò Schiffer. «Svegliati Tanoï. Altrimenti mi arrabbio veramente.»

Il turco oscillò leggermente sui talloni. Malgrado la sua età, somigliava ancora a uno scolaretto contrito:

«Sì, lavorava nelle officine inferiori.»

«Di dov’era originaria, Gaziantep?»

«Non esattamente Gaziantep, un villaggio vicino. Parlava un dialetto del Sud.»

«Il suo passaporto chi ce l’ha?»

«Niente passaporto.»

Schiffer sospirò e si rassegnò a quella nuova menzogna:

«Parlami della sua sparizione.»

«Non ho niente da dire. La ragazza ha lasciato il laboratorio giovedì mattina. Non è mai arrivata a casa.»

«Giovedì mattina?»

«Sì, alle sei. Lavorava di notte.»

I due poliziotti si lanciarono un’occhiata. Era vero che la donna stava rientrando dal lavoro quando era stata sorpresa, ma il tutto si era svolto all’alba. Avevano visto giusto, fatta eccezione per gli orari invertiti.

«Mi hai detto che non è mai arrivata a casa», riprese il Cifra. «Chi te l’ha detto?»

«Il suo fidanzato.»

«Non rientravano insieme?»

«Lui lavorava di giorno.»

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