Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Mathilde si rivolse a Veynerdi:

«Professore, glielo spieghi.»

Lui si voltò verso la giovane donna:

«Temo che si debba passare per un breve corso di anatomia…»

«Meno arie come me.»

Lui sorrise brevemente, acido come una scorza di limone.

«Gli elementi che compongono il corpo umano si rigenerano seguendo dei cicli specifici. I globuli rossi si riproducono in centoventi giorni. La pelle muta integralmente in cinque giorni. Le pareti intestinali si rinnovano in sole quarantotto ore. Tuttavia, accanto a questa perpetua ricostruzione, esistono, nel sistema immunitario, delle cellule che conservano per moltissimo tempo le tracce dei contatti con gli elementi esterni. Si chiamano cellule con memoria.»

Aveva una voce da fumatore, grave e rauca, che contrastava con il suo aspetto curato.

«In presenza di malattie, queste cellule creano delle molecole di difesa o di riconoscimento che recano il marchio dell’aggressione. Quando si rinnovano, esse trasmettono questo messaggio di protezione. Una sorta di ricordo biologico. Il principio del vaccino poggia interamente su questo sistema. Basta mettere una sola volta il corpo umano in contatto con l’agente patogeno per fare in modo che le cellule producano per anni delle molecole protettrici. Ciò che è valido per una malattia è valido per ogni altro elemento esterno. Noi conserviamo sempre l’impronta della nostra vita passata, degli innumerevoli contatti con il mondo. È possibile studiare queste impronte, la loro origine, la loro data.»

Si inchinò in una piccola riverenza:

«Questo campo, ancora poco conosciuto, è la mia specialità.»

Mathilde si ricordava del suo primo incontro con Veynerdi, durante un seminario sulla memoria, a Maiorca, nel 1997. La maggior parte dei relatori era costituita da neurologi, psichiatri e psicanalisti. Avevano parlato di sinapsi, di reti neurali, di subconscio, e tutti avevano sottolineato la complessità della memoria. Poi, il quarto giorno, era intervenuto un biologo con il farfallino e gli orizzonti erano cambiati. Da dietro il tavolo, Alain Veynerdi non parlava più della memoria del cervello, ma di quella del corpo.

Lo studioso aveva presentato una ricerca sui profumi. L’impregnazione costante della pelle con una sostanza alcolica finiva per «incidere» alcune cellule, formando una traccia indelebile, anche dopo che il soggetto aveva smesso di portare il profumo. Aveva citato il caso di una donna che aveva utilizzato per dieci anni Chanel n. 5 e la cui pelle ne portava ancora, dopo quattro anni, la firma chimica.

Quel giorno, chi aveva assistito alla conferenza ne era uscito incantato. All’improvviso, la memoria si poteva tradurre fisicamente e poteva essere sottoposta ad analisi chimiche, al microscopio… All’improvviso, quell’entità astratta che continuava a sfuggire agli strumenti della tecnologia moderna, si rivelava materiale, tangibile, osservabile. Una scienza umana diventava una scienza esatta.

Il volto di Anna era illuminato da una lampada bassa. Malgrado la fatica, i suoi occhi brillavano in maniera singolare. Cominciava a capire:

«Nel mio caso, cosa può trovare?»

«Abbia fiducia in me», replicò il biologo. «Il suo corpo, nel segreto delle cellule, ha conservato i segni del suo passato. Scoveremo le testimonianze dell’ambiente fisico nel quale viveva prima dell’incidente. L’aria che respirava. Le tracce delle sue abitudini alimentari. La firma del profumo che portava. In un modo o nell’altro, ne sono sicuro, lei è ancora quella di un tempo.»

32.

Veynerdi azionò diverse macchine. La luce dei led e degli schermi dei computer rivelò le vere dimensioni del laboratorio: una grande stanza il cui perimetro era composto da ampie vetrate e da muri tappezzati di sughero e ingombri di strumenti d’analisi. Il bancone e la tavola inox riflettevano tutte le sorgenti luminose e le trasformavano in filamenti verdi, gialli e rossi.

Il biologo indicò una porta sulla sinistra:

«Si spogli in quella cabina, per cortesia.»

Anna vi entrò. Veynerdi si infilò dei guanti di lattice, dispose dei sacchetti sterili sulle piastrelle del bancone, poi si piazzò dietro una batteria di provette allineate. Sembrava un musicista che si apprestasse a suonare uno xilofono di vetro.

Anna riapparve, indossando solo un paio di culottes nere. Il suo corpo era di una magrezza malata. Pareva che le ossa dovessero lacerarle la pelle al minimo gesto.

«Si distenda, per cortesia.»

Anna si issò sulla tavola. Quando faceva uno sforzo sembrava più robusta. I muscoli le riempivano la pelle, scatenando un’impressione di forza, di potenza. Quella donna nascondeva un mistero, un’energia compressa. Mathilde pensò al guscio d’un uovo che rivelasse in trasparenza il profilo di un tirannosauro.

Veynerdi prese un ago e una siringa da una confezione sterile:

«Cominceremo con un prelievo di sangue.»

Piantò l’ago nel braccio di Anna, senza suscitare la minima reazione. Aggrottando la fronte chiese a Mathilde:

«Le ha dato dei calmanti.»

«Sì, del Traxene. Intramuscolo. Stasera era agitata e…»

«Quanto?»

«Cinquanta milligrammi.»

Il biologo fece una smorfia. Quell’iniezione doveva ostacolare le sue analisi. Tolse l’ago e mise una medicazione nell’incavo del gomito, poi si spostò dietro al bancone.

Mathilde seguiva ogni suo gesto. Miscelò il sangue raccolto con una soluzione ipotonica per distruggere i globuli rossi e ottenere un concentrato di globuli bianchi. Mise il campione in un cilindro nero che assomigliava a un piccolo scaldavivande: la centrifuga. Ruotando a mille giri al secondo, l’apparecchio separava i globuli bianchi dagli ultimi residui. Qualche secondo dopo, Veynerdi ne trasse un deposito traslucido.

«Ecco le sue cellule immunitarie», commentò rivolgendosi ad Anna. «Sono loro che contengono le tracce che mi interessano. Andiamo a guardarle più da vicino…»

Diluì il concentrato con del siero fisiologico, poi lo versò in un citometro di flusso; un blocco grigio nel quale ciascun globulo veniva isolato e sottoposto a un raggio laser. Mathilde conosceva la procedura: la macchina reperiva le molecole di difesa e le identificava, grazie a un catalogo di impronte creato da Veynerdi.

«Niente di significativo», disse dopo alcuni minuti. «Si notano solo contatti con malattie e agenti patogeni ordinari. Batteri, virus… In quantità inferiore alla media. Lei conduceva una vita molto sana, signora. Non vedo altre tracce di agenti esogeni. Nessun profumo, nessuna impregnazione particolare. Un vero terreno neutro.»

Anna rimaneva immobile sulla tavola, le braccia intorno alle ginocchia. La sua pelle diafana rifletteva i colori delle spie luminose come un frammento di ghiaccio, quasi azzurro a forza di essere bianco. Veynerdi si avvicinò con un ago molto più lungo:

«Adesso effettueremo una biopsia.»

Anna si irrigidì.

«Non abbia paura. Non le farò male. Andrò semplicemente a prelevare un po’ di linfa nel ganglio situato sotto l’ascella. Alzi il braccio destro per favore.»

Anna portò il gomito sopra la testa. Lui insinuò l’ago, mormorando con la sua voce da fumatore:

«Questi gangli sono in contatto con la regione polmonare. Se lei ha respirato delle polveri particolari, un gas, un polline o qualche altra cosa significativa, questi globuli bianchi se ne ricorderanno.»

Ancora intontita dall’ansiolitico, Anna non fece il minimo movimento. Il biologo ritornò dietro al bancone e procedette a nuove operazioni.

Passarono diversi minuti prima che dicesse:

«Vedo della nicotina e del catrame. Nella sua vita precedente lei fumava.»

Mathilde intervenne:

«Fuma anche nella vita attuale.»

Il biologo accettò l’osservazione annuendo con la testa, poi aggiunse:

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