«Non so esattamente», disse il medico. «Curano dei traumi.»
«Traumi di guerra?»
«Credo di sì. Dovrei informarmi.»
Mathilde aveva lavorato per tre anni nell’équipe di Le Garrec e lui non aveva mai menzionato quell’istituto. Come per nascondere l’evidenza della sua menzogna, il militare passò all’attacco:
«Perché mi fai queste domande?»
Lei non cercò di sottrarsi:
«Ho una paziente che ha fatto degli esami là.»
«Che genere di esami?»
«Delle prove tomografiche.»
«Non sapevo che avessero un Petscan.»
«È Ackermann che dirige gli esperimenti.»
«Il cartografo?»
Eric Ackermann aveva scritto un saggio sulle tecniche di esplorazione del cervello, raccogliendo i lavori di differenti équipe sparse per il mondo. Il libro era diventato un punto di riferimento. Dalla sua uscita, il neurologo veniva ritenuto uno dei più grandi topografi del cervello umano. Un viaggiatore che esplorava quella regione anatomica come se fosse stato un sesto continente.
Mathilde annuì. Le Garrec rifletté:
«È strano che lavori con noi.»
Il «noi» la divertì. L’esercito era più di una corporazione: era una famiglia.
«Davvero», confermò lei. «Ho conosciuto Ackermann all’università. Un vero ribelle. Obiettore di coscienza, pieno di droga fino agli occhi. Lo vedo male a lavorare con i militari. Credo che fosse persino stato condannato per “fabbricazione illegale di stupefacenti”.»
Le Garrec si lasciò scappare una risata:
«Potrebbe proprio essere questa la ragione. Vuoi che li contatti?»
«No, grazie. Volevo solo sapere se tu avevi sentito parlare di quei lavori, tutto qui.»
«Come si chiama la tua paziente?»
Mathilde capì in quel momento di essersi spinta troppo oltre. Le Garrec avrebbe potuto condurre una propria indagine o, peggio ancora, «riferirne» ai suoi superiori. Un universo di esperimenti segreti, insondabili, condotti in nome di un interesse superiore.
Tentò di allentare la tensione:
«Non preoccuparti. Era solo un dettaglio.»
«Come si chiama?» insistette l’ufficiale.
Mathilde sentì il freddo insinuarsi sempre di più nel suo corpo.
«Grazie», replicò. «Io… Chiamerò direttamente Ackermann.»
«Come vuoi.»
Anche Le Garrec faceva marcia indietro: ritornavano entrambi ai loro ruoli abituali, al loro tono disinvolto. Ma in quelle poche battute avevano attraversato lo stesso campo minato. Riappese, non prima di aver promesso di richiamarlo per una cena insieme.
Dunque, era una certezza: l’istituto Henri-Becquerel nascondeva un segreto. E la presenza di Ackermann in quell’affare rendeva ancora più profondo l’enigma. I «deliri» di Anna Heymes le sembravano sempre meno psicotici…
Mathilde passò nella parte privata del suo appartamento. Camminava in quel suo modo particolare: le spalle alte, le braccia lungo il corpo e soprattutto le anche leggermente di sbieco. Da giovane aveva raffinato a lungo quell’andatura obliqua che le pareva mettesse in evidenza il suo profilo. Ora, quel portamento era diventato una seconda natura.
Una volta nella sua camera, aprì un secretaire lucido e ornato con palme e fasci di giunchi. Meissonnier, 1740. Utilizzando una minuscola chiave che portava sempre con sé, sblocco un cassetto.
Vi trovò un cofanetto di bambù intrecciato tempestato di madreperla. Sul fondo c’era una pelle di camoscio. Prendendola tra il pollice e l’indice, tolse la pelle e disvelò, in un riverbero dorato, l’oggetto proibito.
Una pistola automatica Glock, calibro 9 millimetri.
Un’arma d’una leggerezza estrema, a bloccaggio meccanico, dotata di una sicura Safe-Action. Un tempo quella pistola era stata uno strumento di tiro sportivo, autorizzato da un porto d’armi. Ma ora, caricata con sedici proiettili blindati, non era più oggetto di alcuna autorizzazione. Era diventato un semplice strumento di morte, dimenticato nei dedali dell’amministrazione francese…
Mathilde soppesò l’arma col palmo della mano, pensando alla propria situazione. Una psichiatra divorziata, in astinenza da pene, che nascondeva nel suo secretaire un’arma automatica. Sorridendo mormorò: «Lascio a voi giudicare il valore simbolico…»
Tornata nel suo studio, fece una nuova telefonata, poi si avvicinò al divano. Per ottenere qualche segno di risveglio dovette scuotere Anna con forza.
Alla fine, la giovane donna si ridestò lentamente. Guardò la sua ospite senza sorpresa, con la testa ripiegata su una spalla. Mathilde chiese a voce bassa:
«Hai detto a qualcuno che saresti venuta qui?»
Fece «no» con la testa.
«Nessuno sa che ci conosciamo?»
Stessa risposta. Mathilde pensò che forse l’avevano seguita: era lascia o raddoppia.
Anna si sfregò gli occhi con le mani, accentuando ancora la stranezza del suo sguardo: quella pigrizia delle palpebre, quel languore disteso verso le tempie, al di sopra degli zigomi. Sulla guancia aveva ancora i segni della coperta.
Mathilde pensò alla propria figlia, quella che era partita con tatuato sulla spalla un ideogramma cinese che significava: «la Verità.»
«Vieni», sussurrò. «Ce ne andiamo.»
«Cos’è che mi hanno fatto?»
Le due donne filavano a tutta velocità lungo il boulevard Saint-Germain, in direzione della Senna. La pioggia era cessata, ma aveva lasciato ovunque le sue impronte: striature, paillette, macchie blu nel vibrato della sera.
Mathilde assunse un tono professorale per mascherare meglio le proprie incertezze.
«Un trattamento», rispose seccamente.
«Che trattamento?»
«Senza dubbio un metodo nuovo, che ha permesso di intaccare una parte della tua memoria.»
«È possibile?»
«In linea di massima no. Ma Ackermann deve aver inventato qualcosa di… rivoluzionario. Una tecnica legata alla tomografia e alle localizzazioni cerebrali.»
Continuando a guidare, gettava delle brevi occhiate ad Anna, che stava lì prostrata, lo sguardo fisso, le mani unite infilate in mezzo alle cosce.
Mathilde proseguì:
«Uno choc può provocare un’amnesia parziale. Ho curato un giocatore di football dopo una commozione cerebrale determinatasi durante una partita. Si ricordava di una parte della sua vita, ma assolutamente niente dell’altra. Può darsi che Ackermann abbia trovato il sistema per provocare lo stesso fenomeno con una sostanza chimica, o un’irradiazione o con qualcos’altro. Una sorta di schermo innalzato all’interno della tua memoria.»
«Ma perché mi hanno fatto questo?»
«Secondo me, è nel mestiere di Laurent che bisogna cercare la chiave. Hai visto qualche cosa che non dovevi vedere, o sei a conoscenza di informazioni legate alla sua attività, o forse ti hanno solo usata per un esperimento, come cavia… Tutto è possibile. Siamo dentro a una storia di pazzi.»
In fondo al boulevard Saint-Germain apparve sulla destra l’Istituto del Mondo Arabo. Sulle sue pareti di vetro veleggiavano le nubi.
Mathilde si stupì della sua stessa calma. Stava guidando a cento all’ora, con una pistola automatica nella borsa, quella bambola morbida al fianco e non avvertiva la minima paura. Sentiva piuttosto una curiosità distaccata, mescolata a una certa eccitazione infantile.
«È possibile che la mia memoria ritorni?»
Mathilde conosceva bene quel tono di voce: l’aveva sentito mille volte durante le sue visite all’ospedale Sainte-Anne. Era la voce dell’ossessione. La voce della demenza. Solo che qui, la follia coincideva con la verità.
Scelse le parole con parsimonia:
«Non posso risponderti senza conoscere il metodo che hanno utilizzato. Se si tratta di sostanze chimiche ci può essere forse un antidoto. Se invece si tratta di chirurgia, io sarei più… pessimista.»
Читать дальше