La rabbia di Paul si trasformò in una sensazione di vittoria. Così, le sue intuizioni erano giuste: operaie clandestine, lineamenti identici… Aveva ragione anche a proposito delle statue antiche?
Schiffer rincarò:
«Questi volti rappresentano un enorme passo avanti, credimi. Perché ci danno un’informazione essenziale. L’assassino conosce questo quartiere come le sue tasche.»
«Non è una scoperta.»
«Supponevamo che fosse turco, non che conoscesse tutti i laboratori, tutte le cantine. Ti rendi conto della pazienza e dell’accanimento che ci vuole per trovare delle ragazze che si assomiglino a quel punto? Quel bastardo ha delle entrature ovunque.»
Con voce più calma, Paul disse:
«Okay. Ammetto che senza di lei non avrei mai messo le mani su queste foto. Allora le risparmio la galera. La riporto direttamente a Longères senza passare per la casella “polizia”.»
Girò la chiave, ma Schiffer gli afferrò il braccio:
«Stai commettendo un errore, ragazzo. Tu hai più che mai bisogno di me.»
«Per lei è finita.»
Il Cifra sollevò una delle schede e la agitò alla luce della lampada:
«Non abbiamo solo le loro foto e le loro identità. Abbiamo anche i dati del posto dove lavoravano. E questo è roba concreta.»
Paul lasciò la chiave:
«Le loro colleghe avrebbero potuto vedere qualche cosa?»
«Ricordati cos’ha detto il medico legale. Avevano la pancia vuota. Stavano rientrando dal lavoro. Bisogna interrogare le operaie che fanno lo stesso percorso ogni sera. E anche i padroni dei laboratori. Ma per questo tu non puoi fare a meno di me, ragazzo mio.»
Schiffer non aveva bisogno di insistere: erano già tre mesi che Paul sbatteva il naso contro gli stessi muri. Si vedeva già a riprendere l’inchiesta da solo e continuare senza ottenere nulla.
«Le do un giorno», concedette. «Visitiamo i laboratori. Interroghiamo le colleghe, i vicini, i parenti se ce ne sono. Poi, ritorno all’ospizio. E la avviso: al minimo casino la ammazzo. Questa volta non avrò esitazioni.»
L’altro si sforzò di ridere ma, Paul lo sentiva, aveva paura. Il timore si era impossessato ormai di loro, di tutti e due. Stava per partire, quando si fermò di nuovo: voleva avere l’animo tranquillo.
«Perché tutta quella violenza con Marius?»
Schiffer osservò le sculture dei doccioni che si stagliavano nelle tenebre. Diavoli accosciati sul loro trespolo, incubi col muso ingrugnito, demoni dalle ali di pipistrello. Mantenne ancora per un attimo il silenzio, poi mormorò:
«Non c’era altro modo. Loro hanno deciso di non dire niente.»
«“Loro” chi?»
«I turchi. Il quartiere è chiuso a doppia mandata, cazzo! Ogni minima parte di verità dobbiamo strapparla.»
La voce di Paul si ruppe, facendosi più acuta:
«Ma perché fanno così? Perché non vogliono aiutarci?»
Il Cifra continuava a scrutare i musi di pietra. Il suo pallore faceva concorrenza alla luce della plafoniera:
«Non hai capito? Proteggono l’assassino.»
Tra le sue braccia, lei era stata un fiume.
Una forza fluida, morbida, dispiegata. Aveva sfiorato le notti e i giorni come l’onda accarezza le erbe sommerse, senza mai mutarne lo slancio, il languore. Si era lasciata scorrere tra le sue mani, attraversando il chiaroscuro delle foreste, il letto delle schiume, l’ombra delle rocce. Si era inarcata di fronte ai chiarori che esplodevano sotto le sue palpebre quando sopraggiungeva il piacere. Poi si era abbandonata di nuovo, in un movimento lento, traslucido sotto le sue mani…
Nel corso degli anni, c’erano state delle stagioni distinte. Un gorgogliare d’acqua, leggero, canterino. Delle criniere di schiuma sbattute dalla collera. Ma anche dei guadi, delle tregue durante le quali non si toccavano più. Ma quei riposi erano piacevoli. Avevano la leggerezza delle canne, la dolcezza dei ciottoli messi a nudo.
Quando il fluire riprendeva e li spingeva di nuovo verso altre rive, al di sopra dei sospiri, delle labbra socchiuse, era solo per raggiungere meglio il piacere unico, dove tutto non era che uno, e l’altro era tutto.
«Capisce dottore?»
Mathilde Wilcrau sussultò. Guardò il sofà Koll, a due metri da lei, il solo della stanza che non fosse del XVIII secolo. Sopra c’era disteso un uomo. Un paziente. Perduto nelle sue fantasticherie; lo aveva completamente dimenticato, non aveva sentito una sola parola del suo discorso.
Per dissimulare il suo disagio ribatté:
«No, non la capisco. La sua formulazione non è abbastanza precisa. Cerchi di dirlo con altre parole, per cortesia.»
L’uomo riprese le sue spiegazioni, con la faccia rivolta al soffitto, le mani incrociate sul petto. Discretamente, Mathilde prese dal cassetto una crema idratante. La freschezza del prodotto sulle sue mani la fece tornare in sé. I suoi momenti di straniamento erano sempre più frequenti e sempre più profondi. Ormai, lei portava all’estremo la neutralità dello psicanalista: letteralmente, Mathilde non era più là. Un tempo ascoltava le parole dei pazienti con attenzione. Coglieva i loro lapsus, le loro esitazioni, le loro cadute. Sassolini bianchi che le permettevano di risalire la pista della nevrosi, del trauma… Ma ora?
Ripose il tubetto della crema e continuò a spalmarsene le dita. Nutrire, Irrigare. Lenire. La voce dell’uomo era già divenuta nient’altro che un rumore che cullava la sua malinconia.
Sì, tra le sue braccia era stata un fiume. Ma poi i guadi si erano moltiplicati, le tregue erano diventate più lunghe. Si era volontariamente accecata, con la forza della speranza, con la sua fede nell’amore. Poi, sulla sua lingua, era nato un gusto di polvere, mentre un dolore lancinante si impadroniva delle sue membra. Ben presto, le era parso che le vene si seccassero, che divenissero delle travature inerti, senza vita. Si era sentita vuota. Prima ancora che i cuori avessero dato un nome alla situazione, i corpi avevano parlato.
Poi la rottura aveva superato la soglia delle coscienze e le parole avevano concluso il movimento: la separazione era diventata ufficiale. L’era delle formalità era cominciata. Era stato necessario incontrare il giudice, calcolare l’assegno di mantenimento, organizzare il trasloco. Mathilde era stata irreprensibile. Sempre attenta, sempre responsabile. Ma il suo spirito era già altrove. Appena poteva, cercava di ricordarsi, di viaggiare in sé stessa, nella sua propria storia, stupita di ritrovare nella propria memoria così poche tracce, così poche impronte dei giorni andati. L’intera sua persona assomigliava a un deserto bruciato, a un sito antico dove a evocare il passato c’era solo qualche misero solco sulla superficie di pietre troppo bianche.
Si era sentita confortata al pensiero dei suoi figli. Erano l’incarnazione del suo destino, sarebbero stati la sua ultima sorgente. Si era data a loro anima e corpo. In quegli ultimi anni della loro educazione, lei si era dimenticata, si era annullata. Ma avevano finito per lasciarla, anche loro. Suo figlio si era perso in una strana città, al tempo stesso minuscola e immensa, fatta solo di chip e microprocessori. Sua figlia, al contrario, «ritrovò sé stessa» nei viaggi e nell’etnologia. O almeno così diceva. Quello di cui era certa è che la sua strada passava lontano dai suoi genitori.
Dovette dunque interessarsi alla sola persona rimasta a bordo: lei stessa. Si concesse ogni capriccio: vestiti, mobili, amanti. Si regalò delle crociere, dei viaggi nei posti che aveva sempre sognato. Un completo fallimento. Le pareva che quelle fantasie accelerassero ulteriormente il suo sgretolamento, che precipitassero la sua vecchiaia.
La desertificazione continuava le sue devastazioni. La morsa della sabbia si estendeva in lei. Non solo nel suo corpo, ma anche nel suo cuore. Diventava più dura, più acida con la gente. I suoi giudizi erano perentori; le sue posizioni nette, intransigenti. Il minimo sentimento di indulgenza le richiedeva uno sforzo enorme. Soffriva ormai di una vera paralisi dei sentimenti che la rendeva ostile verso gli altri.
Читать дальше