Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Ackermann prediceva che un giorno le macchine avrebbero permesso di viaggiare all’interno del cervello e di osservare la sua attività in diretta. Il tempo gli aveva dato ragione. Lui stesso era diventato uno dei migliori specialisti in materia, grazie a tecnologie come la camera a positroni e la magnetoencefalografia.

Era possibile che avesse condotto un esperimento sulla giovane donna?

Cercò nella sua agenda i recapiti di una studentessa che, nel 1995, aveva seguito le sue lezioni alla facoltà del Sainte-Anne. Al quarto squillo, qualcuno rispose.

«Valérie Rannan?»

«Sono io.»

«Sono Mathilde Wilcrau.»

«La professoressa Wilcrau?»

Erano passate le undici di sera, ma il tono era attento.

«La mia chiamata le sembrerà senza dubbio strana, soprattutto a quest’ora…»

«Cosa vuole?»

«Volevo solo farle qualche domanda, sa, sulla sua tesi di dottorato. Il suo lavoro verteva sulle manipolazioni mentali e l’isolamento sensoriale?»

«All’epoca non sembrava interessarle molto.»

Mathilde colse in quella risposta un’inflessione aggressiva. Aveva rifiutato di dirigere il lavoro della studentessa. Non credeva in quella ricerca. Per lei, il lavaggio del cervello era piuttosto simile a un fantasma collettivo, a una leggenda metropolitana.

Addolcì la sua voce con un sorriso:

«Lo so. Ero abbastanza scettica. Ma ora ho bisogno di un’informazione per un articolo che sto scrivendo urgentemente.»

«Dica pure.»

Mathilde non sapeva da cosa cominciare. Lei stessa non era sicura di ciò che voleva sapere. Un po’ a caso, buttò lì:

«Nell’abstract della sua tesi, lei scrive che è possibile cancellare la memoria di un soggetto. È… Insomma, è vero?»

«Sono tecniche che si sono sviluppate a partire dagli anni Cinquanta.»

«Erano i sovietici che le praticavano, no?»

«I russi, i cinesi, gli americani, tutti. Era una delle poste in gioco fondamentali della Guerra fredda. Annientare la memoria. Distruggere le convinzioni. Modellare le personalità.»

«Quali metodi impiegavano?»

«Sempre gli stessi: elettrochoc, droghe, isolamento sensoriale.»

Ci fu un attimo di silenzio.

«Quali droghe?» riprese Mathilde.

«Io ho lavorato soprattutto sul programma della CIA: il MK-Ultra. Gli americani usavano dei sedativi. Sodio amytal. Clorpromazina.»

Mathilde conosceva quei nomi; l’artiglieria pesante della psichiatria. Negli ospedali, quei prodotti passavano sotto la voce generica di «camicia di forza chimica». Ma, in realtà, si trattava di veri trituratori, di macchine per macinare la mente.

«E l’isolamento sensoriale?»

Valérie Rannan riprese:

«Gli esperimenti più avanzati si sono svolti in Canada, a partire dal 1954, in una clinica di Montreal. Dapprima gli psichiatri interrogavano le loro pazienti, delle maniache depressive. Le forzavano a confessare delle colpe, dei desideri di cui provavano vergogna. In seguito le rinchiudevano in una stanza completamente buia, di cui non potevano vedere né il pavimento, né il soffitto, né i muri. Poi mettevano loro un casco da giocatore di rugby con delle cuffie nelle quali passavano a ciclo continuo parti scelte delle loro confessioni. Le donne sentivano costantemente le loro stesse parole, i momenti più penosi delle loro confessioni. Le sole pause erano costituite dalle sedute di elettrochoc e dalle cure chimiche del sonno.»

Mathilde diede una breve occhiata ad Anna, addormentata sul divano. Il suo petto si sollevava dolcemente, seguendo il respiro. La studentessa proseguì:

«Il vero condizionamento cominciava quando la paziente non ricordava più né il proprio nome né il proprio passato, quando non aveva più alcuna volontà. Si cambiavano i nastri da ascoltare in cuffia: venivano dati ordini, ingiunzioni ripetute che dovevano modellare la nuova personalità.»

Come ogni psichiatra, anche Mathilde aveva sentito parlare di quelle aberrazioni, ma non riusciva a convincersi della loro esistenza e soprattutto della loro efficacia.

«Quali erano i risultati?» chiese con voce neutra.

«Gli americani sono riusciti solo a ottenere degli zombi. I russi e i cinesi sembrano aver avuto più risultati con metodi più o meno simili. Dopo la guerra di Corea, oltre settemila soldati americani sono tornati a casa totalmente conquistati dai valori comunisti. La loro personalità era stata condizionata.»

Mathilde si massaggiò le spalle; sentiva un freddo sepolcrale risalirle le membra.

«Lei pensa che ci siano ancora oggi dei laboratori che continuano a lavorare in questi campi?»

«Certo.»

«Che genere di laboratori?»

Valérie scoppiò in una risata sarcastica:

«Ma dove vive? Stiamo parlando di centri militari. Tutte le forze armate lavorano sulla manipolazione del cervello.»

«Anche in Francia.»

«In Francia, in Germania, in Giappone, negli Stati Uniti. Ovunque ci siano mezzi tecnologici sufficienti. Ci sono sempre nuovi prodotti. In questo periodo si parla molto di una sostanza chimica, il GHB, che cancella i ricordi delle ultime dodici ore. La chiamano “la droga del violentatore” perché la ragazza drogata non si ricorda di nulla. Sono sicura che attualmente i militari lavorano su questo genere di prodotti. Il cervello rimane l’arma più pericolosa del mondo.»

«La ringrazio, Valérie.»

L’altra parve sorpresa:

«Non vuole delle fonti più precise? Una bibliografia?»

«Grazie. La richiamerò in caso di necessità.»

29.

Mathilde si avvicinò ad Anna che rimaneva assopita. Ispezionò le sue braccia, cercando segni di iniezioni: nessuna traccia. Osservò i suoi capelli, dal momento che l’assunzione ripetuta di sedativi provoca un’infiammazione elettrostatica del cuoio capelluto: nessun segno particolare.

Si rialzò, stupita lei stessa di dare un qualche credito alla storia di quella donna. No, davvero, stava uscendo di testa anche lei… In quel momento, notò di nuovo le cicatrici sulla fronte: tre tratti verticali, minimi, distanti qualche centimetro l’uno dall’altro. Suo malgrado, tastò le tempie, le mandibole: le protesi si mossero sotto la pelle.

Chi aveva fatto tutto quello? Come poteva Anna aver dimenticato una tale operazione?

Durante la sua prima visita aveva parlato dell’istituto dove aveva effettuato i test tomografici. È a Orsay. Un ospedale pieno di soldati. Mathilde aveva annotato il nome da qualche parte tra i suoi appunti.

Sfogliò rapidamente il suo bloc-notes e lo sguardo le cadde su una pagina coperta dai suoi abituali ideogrammi. In un angolo, a destra, aveva scritto «Henri-Becquerel».

Mathilde prese una bottiglia d’acqua nel ripostiglio accanto al suo studio, poi, dopo aver bevuto una lunga sorsata, alzò il ricevitore e compose un numero.

«René? Sono Mathilde. Mathilde Wilcrau.»

Leggera esitazione. L’ora. Gli anni trascorsi. La sorpresa… Alla fine, la voce grave chiese:

«Come va?»

«Ti disturbo?»

«Scherzi? Sentirti è sempre un piacere.»

René Le Garrec era stato il suo maestro e il suo professore quando lavorava all’ospedale di Val-de-Grâce. Psichiatra militare, specializzato in traumi di guerra, aveva fondato le prime unità d’urgenza medico-psicologica destinate alle vittime degli attentati, delle guerre, delle catastrofi naturali. Un pioniere che aveva dimostrato a Mathilde che si potevano portare i gradi senza essere necessariamente un coglione.

«Volevo solo chiederti una cosa. Conosci l’istituto Henri-Becquerel?»

Percepì una breve esitazione.

«Sì, lo conosco. È un ospedale militare.»

«Su che cosa lavorano?»

«All’inizio facevano medicina nucleare.»

«E ora?»

Nuova esitazione. Mathilde non aveva più dubbi: stava mettendo il naso dove non doveva.

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