Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Attento dietro!»

Schiffer si voltò e gli sbatté il cannone in piena faccia. Marius fece un giro completo sulla sedia e andò a schiantarsi sui volantini. Il Cifra lo afferrò per la maglia e gli piantò la canna sotto la gola:

«Le schede, turco schifoso. Se no, te lo giuro, ti lascio per morto.»

Marek era scosso da tremiti; il sangue schiumava tra i suoi denti rotti, ma non cancellava la sua espressione allegra. Schiffer mise via l’arma e lo trascinò fino alla taglierina.

Paul estrasse a sua volta la pistola e urlò:

«Basta!»

Schiffer alzò la ghigliottina e vi infilò sotto la mano destra dell’uomo:

«Dammi quei dossier, sacco di merda!»

«LA SMETTA O SPARO!»

Il Cifra non alzò neppure gli occhi. Premette lentamente sulla lama. Sotto la taglierina, la pelle delle falangi cominciò a piegarsi. Il sangue sgorgò in una serie di piccole bolle nere. Marius urlò, ma meno forte di Paul:

«SCHIFFER!»

Teneva le due mani strette sul calcio della pistola, con il Cifra sempre nel mirino. Doveva sparare. Doveva…

Dietro di lui, la porta si aprì violentemente. Fu proiettato in avanti, rotolò su sé stesso e si ritrovò sbattuto ai piedi della scrivania in lamiera con la nuca piegata ad angolo retto.

Le due guardie del corpo avevano già la mano alla fondina quando il sangue schizzò. La stanza fu riempita da un ululato di iena. Paul capì che Schiffer aveva finito il suo lavoro. Si alzò in ginocchio e, agitando il cannone verso i turchi, gridò:

«Indietro!»

I due uomini, ipnotizzati dalla scena che si apriva ai loro occhi, non si muovevano. Tremando dalla testa ai piedi, Paul tese la sua 9 millimetri all’altezza dei loro musi:

«Indietro, porcoddio!»

Spinse il suo ferro contro il loro torace e riuscì a farli indietreggiare oltre la soglia. Chiuse la porta con la schiena e contemplò infine l’incubo all’opera.

Marius singhiozzava, in ginocchio, la mano ancora prigioniera della taglierina. Le sue dita non erano completamente tranciate, ma le falangi erano a nudo, la pelle rincalzata sull’osso. Schiffer, col volto deformato da una smorfia sardonica, continuava a tenergli la manica.

Paul mise la pistola nella fondina. Doveva tenere sotto controllo quel pazzo. Ma proprio mentre quello stava per premere di nuovo sulla lama, il turco tese la mano sana verso uno degli armadi argentati a fianco della fotocopiatrice.

«Le chiavi!» urlò Schiffer.

Marius cercò di afferrare il mazzo che pendeva dalla sua cintura. Il Cifra glielo strappò e, una a una, sgranò sotto i suoi occhi le chiavi; con un cenno del capo, il turco indicò quella che apriva la serratura.

Il vecchio poliziotto si gettò sul classificatore. Paul ne approfittò per liberare il torturato. Alzò con precauzione la lama dalla quale pendevano frange rossastre. Il turco crollò ai piedi del mobile e si raggomitolò gemendo:

«Ospedale… ospedale…»

Schiffer si voltò, l’aria allucinata. Aveva in mano un faldone cartonato, chiuso da una cinghia di tessuto. Lo aprì con un gesto convulso e trovò le schede e le polaroid delle tre vittime.

In stato di choc, Paul capì che l’altro aveva vinto.

26.

Presero l’uscita d’emergenza e corsero fino alla Golf. Paul partì sgommando ed evitò d’un soffio una macchina che stava passando in quel momento.

Spinse a fondo e svoltò a destra nella rue Lucien-Sampaix. Capì con un attimo di ritardo che aveva imboccato un senso vietato. Con un colpo di gomito, girò di nuovo, tutto a sinistra: boulevard de Magenta.

Davanti ai suoi occhi danzava la verità. Le lacrime si mescolavano alla pioggia sul parabrezza e gli confondevano la vista. Riusciva appena a scorgere i semafori che sanguinavano nell’acquazzone come ferite.

Superò un primo semaforo, senza rallentare, poi un secondo, provocando un caos di frenate e di colpi di clacson. Al terzo semaforo, infine, inchiodò. Nella sua testa risuonò per qualche secondo un brontolio, poi capì quello che doveva fare.

Verde.

Tirò su di scatto il piede dalla frizione e accelerò imballando il motore; bestemmiò.

Stava girando la chiave nel quadro quando la voce di Schiffer si fece sentire:

«Dove vai?»

«Al posto di polizia», rispose ansimando. «Ti arresto, bastardo.»

Dall’altra parte della piazza, la Gare de l’Est brillava come una nave da crociera. Ripartì, il Cifra spostò la gamba dalla parte del guidatore e schiacciò il pedale dell’acceleratore.

«Che cazzo…»

Schiffer afferrò il volante e sterzò a destra. Si infilarono in rue Sibour, una viuzza stretta che costeggiava la chiesa di Saint-Laurent. Sempre con una mano sola, girò ancora una volta, obbligando la Golf a sobbalzare sui blocchi catarifrangenti della pista ciclabile e poi a sbattere contro il marciapiede.

Paul si beccò il volante nelle costole. Ansimò, tossì, poi si sciolse in un sudore bollente. Chiuse il pugno e si girò verso il passeggero, pronto a spaccargli la mascella.

Il pallore dell’uomo lo dissuase. Schiffer era di nuovo invecchiato di vent’anni. Il suo profilo pareva scivolare lungo la linea flaccida del suo collo. I suoi occhi erano così vitrei da sembrare trasparenti. Un vero teschio.

«Lei è fuori di testa», ringhiò Paul, utilizzando il «lei» come segno di disgusto. «Lei è un cazzo di malato. La riempio di merda, ci conti. Creperà in galera, bastardo d’un torturatore!»

Senza rispondere, Schiffer prese nel portaoggetti un vecchio stradario di Parigi e ne strappò diverse pagine per pulirsi la giacca sporca di sangue. Le sue mani punteggiate tremavano, le parole sibilarono tra i denti:

«Non ci sono mille modi per trattare con quegli inculati.»

«Noi siamo poliziotti.»

«Marius è spazzatura. Schiavizza le puttane qui facendo mutilare i loro figli laggiù, al paese. Un braccio, una gamba: così calma le mamme turche.»

«Noi siamo la legge.»

Paul aveva ripreso fiato, sicurezza. Il suo campo visivo si ristabiliva: il muro massiccio e nero della chiesa, i doccioni sopra le loro teste, issati come forche; e la pioggia, ancora la pioggia, che stringeva d’assedio la notte.

Schiffer gettò via le pagine rossastre, abbassò il finestrino e sputò.

«È troppo tardi per sbarazzarti di me.»

«Se lei crede che io abbia paura di rispondere delle mie azioni… Si sbaglia di grosso. Finirà al fresco, anche se dovessi dividere la cella con lei!»

Con una mano, Schiffer accese la luce interna, poi aprì il faldone posato sulle sue ginocchia. Prese le schede delle tre operaie; semplici fogli volanti, stampati con stampante laser, sui quali erano pinzati i ritratti scattati con la polaroid. Strappò via le foto e le dispose sul cruscotto, come se fossero tarocchi.

Si schiarì nuovamente la voce e chiese:

«Cosa vedi?»

Paul non si mosse. Il riverbero delle luci faceva risplendere le tre foto sopra il volante. Da due mesi cercava quei volti. Li aveva immaginati, disegnati, cancellati, aveva ricominciato cento volte… Ora, di fronte a essi, si sentiva impaurito come un ragazzino.

Schiffer lo afferrò per la nuca e lo costrinse a piegarsi:

«Cosa vedi?» ripeté.

Paul spalancò gli occhi. Tre donne dai lineamenti dolci lo guardavano con l’aria leggermente inebetita dal flash. Le loro facce piene erano incorniciate da capelli rossi.

«Cosa noti?» insistette il Cifra.

Paul esitò:

«Si assomigliano, no?»

Scoppiando a ridere, Schiffer ripeté:

«Si assomigliano? Vorrai dire che è ogni volta la stessa!»

Paul si voltò verso di lui. Non era certo di cogliere:

«E allora?»

«E allora avevi ragione tu. L’assassino insegue sempre e soltanto un viso. Un viso che ama e che detesta al tempo stesso. Un viso che lo ossessiona, che scatena in lui pulsioni contraddittorie. Sulle sue motivazioni possiamo avanzare qualunque ipotesi, ma adesso sappiamo che persegue uno scopo.»

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