«Passami le foto.»
Esitò, poi gli diede la busta contenente le immagini dei cadaveri. L’uomo sorrise e aprì la portiera:
«Lasciami fare e vedrai che andrà tutto bene.»
Paul uscì a sua volta e pensò: «Una possibilità, bello mio. Non due.»
Nella sala la pulsazione era così forte da nascondere ogni altra sensazione. Le onde d’urto attraversavano le budella, scorticavano i nervi, poi scendevano nei talloni fino a risalire attraverso le vertebre, facendole tremare come lamelle di un vibrafono.
Istintivamente, Paul incassò la testa tra le spalle e si piegò in due, come per evitare i colpi che gli piombavano addosso, che lo centravano allo stomaco, al petto, e sui due lati del viso, là dove i timpani prendevano fuoco.
Strizzò gli occhi per orientarsi in quell’oscurità fumosa, mentre i proiettori della scena volteggiavano.
Infine vide gli arredi. Balaustre ornate d’oro, colonne di stucco, lampadari di falso cristallo, pesanti tendoni carminio… Schiffer aveva parlato di un ex cinema, ma quegli arredi ricordavano piuttosto il logoro kitsch di un vecchio cabaret, una specie di caffè-concerto da operetta, dove fantasmi impomatati avrebbero potuto contendere il posto ai furiosi gruppi neometal.
Sul palco, i musicisti si agitavano, salmodiando fuckin’ e killin’ , come se piovesse. A torso nudo, lucidi di sudore e di febbre, maneggiavano chitarre, microfoni e piastre come fossero state armi d’assalto, e sollevavano le prime file in ondulazioni forsennate.
Paul lasciò il bar e scese verso la sala. In mezzo alla folla, sentì nascere in sé una nostalgia familiare. I concerti della sua giovinezza; il pogo selvaggio, saltando come una molla sui ritmi arrabbiati dei Clash; i quattro accordi imparati sulla sua chitarra d’occasione, rivenduta subito dopo, quando le corde avevano cominciato a ricordargli troppo da vicino le zebrature insanguinate del sedile di suo padre.
Si accorse di aver perso di vista Schiffer. Si girò e guardò gli spettatori rimasti in cima alla scala, vicino al bar. Avevano assunto un’aria accondiscendente e, bicchiere alla mano, si degnavano di rispondere ai martellamenti che venivano dal palco, con un ancheggiare discreto. Paul passò in rivista quei volti d’ombra, aureolati da luci colorate; niente Schiffer.
All’improvviso, al suo orecchio risuonò una voce:
«Vuoi calare?»
Paul si girò e vide un volto livido e brillante sotto un cappellino.
«Cosa?»
«Ho dei Black Bombay da sballo.»
«Dei cosa?»
Il tipo si sporse e appoggiò la mano sulla spalla di Paul.
«Dei Black Bombay. Dei Bombay olandesi. Ehi tipo, da dove vieni?»
Paul si scostò e tirò fuori il tesserino.
«Ecco da dove vengo. Levati di torno prima che ti sbatta dentro.»
Il tizio scomparve come una fiamma quando ci si soffia sopra. Paul osservò il suo portadocumenti con su il simbolo della polizia e misurò la distanza tra i suoi concerti di allora e il suo profilo di oggi; uno sbirro intransigente, un rappresentante dell’ordine pubblico che, implacabile, rimestava nel fango. Era quello che immaginava quando aveva vent’anni?
Gli arrivò un colpo nella schiena.
«Qualcosa non va?» urlò Schiffer.
Paul era in un bagno di sudore. Tentò di deglutire, ma non ci riuscì. Intorno a lui vacillava tutto; i lampi di luce fracassavano i volti, li accartocciavano come stagnola.
Il Cifra gli rifilò un altro diretto, più amichevole, nel braccio.
«Vieni. Marius è là. Andiamo a beccarlo nella sua tana.»
Si infilarono nella massa dei corpi serrati, mobili, oscillanti; un’onda frenetica e cadenzata di spalle e di anche, risposta brutale, istintiva ai ritmi sputati dal palco. I due poliziotti, lavorando di gomiti e di ginocchia, arrivarono a uno spazio rialzato.
Schiffer girò a destra, mentre da ogni parte ricadevano i gemiti sopracuti delle chitarre. Paul faceva fatica a seguirlo. Lo vide parlare con un buttafuori, sotto il soffio furioso degli altoparlanti. L’uomo annuì e dischiuse una porta invisibile. Paul ebbe appena il tempo di scivolare nell’apertura.
Sbucarono in un cunicolo stretto e male illuminato. Sui muri brillavano dei manifesti. Sulla maggior parte di essi, la mezzaluna turca, associata a un martello comunista, formava un simbolo eloquente. Schiffer spiegò:
«Marius dirige un centro di estrema sinistra in rue de Jarry. Sono i suoi amici che l’anno scorso hanno incendiato le prigioni turche.»
Paul aveva sentito parlare vagamente di quei disordini, ma non fece domande. Non era di umore geopolitico. I due uomini si avviarono. L’eco sordo della musica risuonava nella loro schiena. Senza rallentare, Schiffer sogghignò:
«L’affare dei concerti è ben studiato. Un mercato a ciclo completo!»
«Non capisco.»
«Marius traffica anche in droga. Ecstasy. Anfetamine. Tutto ciò che è a base di speed o di LSD. Amplia la sua clientela con i concerti. Così guadagna su tutti i fronti.»
Preso da un impulso, Paul chiese:
«Lei sa che cos’è un Black Bombay?»
«Una cosa che va molto in questi ultimi anni. Un’ecstasy tagliata con eroina.»
Com’era possibile che un tizio di cinquantanove anni, appena uscito dall’ospizio, conoscesse le ultime tendenze in fatto di ecstasy? Rimaneva un mistero.
«È l’ideale per farti ridiscendere. Dopo l’eccitazione dell’ecstasy, l’eroina ti riporta alla calma. Passi dolcemente dagli occhi a palla, agli occhi piccoli piccoli.»
«Occhi piccoli?»
«Sì certo, l’eroina fa dormire. Chi si fa, poi cade con la testa nel piatto.»
Si fermò.
«Non capisco. Sembra che tu non abbia mai lavorato su un affare di droga.»
«Ho fatto quattro anni all’antidroga, ma questo non fa di me un drogato.»
Il Cifra gli servì il suo più bel sorriso:
«Come credi di combattere il male, se non l’hai mai assaggiato? Come credi di capire il nemico se non sai quali sono i suoi punti di forza? Bisogna sapere cos’è che cercano i ragazzi in quella merda. La forza della droga è che è buona. Cazzo, se non sai queste cose non perdere tempo a combatterla, la roba.»
Paul si ricordò della sua prima idea: Jean-Louis Schiffer, il padre di tutti gli sbirri. Mezzo eroe e mezzo demonio. Il meglio e il peggio riuniti in un solo uomo.
La sua rabbia sbollì. Intanto il suo compagno si era rimesso in marcia. Un’ultima svolta e due colossi dal cappotto di pelle apparvero ai lati di una porta dipinta di nero.
Il poliziotto dai capelli a spazzola esibì il tesserino. Paul trasalì: da dove spuntava quel reperto? Quel dettaglio parve confermargli che la situazione era cambiata: adesso era il Cifra a tenere il timone. Come per ribadirlo, si mise a parlare in turco.
La guardia del corpo esitò, poi alzò la mano per bussare. Con un gesto, Schiffer lo fermò e girò lui stesso la maniglia.
Entrando, senza voltarsi, abbaiò a Paul:
«Durante l’interrogatorio non voglio sentire la tua voce.»
Paul avrebbe voluto lanciargli una frecciata, ma non era più in tempo per rispondere. Quell’incontro sarebbe stato il suo laboratorio.
« Salaam aleikum , Marius!»
L’uomo, accasciato sulla sua poltrona, per poco non cadde all’indietro.
«Schiffer?… Aleikum salaam , fratello mio!»
Marek Cesiuz si era già ripreso. Con un gran sorriso sulla faccia, si alzò e girò intorno alla propria scrivania di metallo. Portava una maglia da calcio rossa e oro, i colori del Galatasaray. Scheletrico com’era, galleggiava dentro la stoffa satinata come fosse una bandiera sulla tribuna di uno stadio. Dargli un’età precisa era impossibile. I capelli rossi e grigi sembravano ceneri spente male; i lineamenti contratti in un’espressione di fredda gioia gli conferivano un’aria sinistra di vecchio-bambino, mentre la carnagione ramata accentuava la sua parvenza di automa e si confondeva con i suoi capelli di ruggine.
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