Senza più riflettere, si infilò tra il muro e i paraurti, raggiunse la porta e l’aprì quel tanto che bastava per scivolare al di là. Un istante dopo spuntò in un atrio chiaro e moderno: nessuno. Volò sugli scalini e saltò fuori.
Stava correndo sull’asfalto, assaporando il contatto con la pioggia, quando uno stridore di freni la bloccò di netto. La macchina aveva inchiodato a pochi centimetri da lei, arrivando a sfiorare il suo kimono.
Lei indietreggiò, distrutta, impaurita. L’automobilista abbassò il finestrino e urlò:
«Ehilà, zoccola! Bisogna guardare quando si attraversa!»
Anna non gli badò. Gettava intorno delle brevi occhiate alla ricerca di nuovi sbirri. Le pareva che l’aria fosse satura di elettricità, di tensione, come durante un temporale.
E il temporale era lei.
Il guidatore la superò lentamente.
«Bisogna che tu ti faccia curare, bella mia!»
«Fottiti.»
L’uomo frenò.
«Cosa?»
Anna lo minacciò con l’indice rosso di sangue:
«Togliti di mezzo, t’ho detto!»
L’altro esitò; sulle sue labbra passò un tremito. Sembrava indovinare che c’era qualcosa che non quadrava, che la situazione andava al di là del semplice diverbio da strada. Alzò le spalle e accelerò.
Una nuova idea. Fuggì di corsa verso la chiesa ortodossa di Parigi che si trovava qualche numero più avanti. Ne seguì la recinzione, attraversò il cortile coperto di ghiaia e salì gli scalini che conducevano al portale. Spinse una vecchia porta di legno lucido e si immerse nelle tenebre.
La navata centrale le parve sprofondata nel buio più assoluto, ma in realtà erano le pulsazioni alle tempie che oscuravano la sua vista. Poco a poco iniziò a discernere ori bruniti, icone rossastre, schienali di sedie ricoperti di rame che assomigliavano a tante fiamme stanche.
Avanzò con attenzione e percepì altri bagliori attenuati, discreti. Lì, ogni oggetto contendeva agli altri le poche gocce di luce distillate dalle vetrate, dai ceri, dai lampadari di ferro forgiato. Persino i personaggi degli affreschi sembravano volersi strappare alle loro tenebre per bere un po’ di chiarore. L’intero spazio era aureolato d’una luce d’argento; un chiaroscuro screziato dove la luce e la notte avevano ingaggiato una sorda lotta.
Anna riprese fiato. Il suo petto era consumato dal bruciore. La sua pelle e i suoi vestiti erano madidi di sudore. Si fermò, si appoggiò a una colonna e assaporò la freschezza della pietra. Ben presto le pulsazioni del suo cuore si calmarono. Lì, ogni dettaglio sembrava possedere virtù calmanti: i ceri che vacillavano sui loro candelieri, i volti del Cristo, lunghi, che parevano fusi in pani di cera, le lampade dorate, sospese come frutti lunari.
«Qualcosa non va?»
Si girò e vide Boris Godunov in persona. Un pope gigante, con un abito nero e una lunga barba bianca, inconsciamente, lei si chiese da quale quadro fosse uscito. Con la sua voce baritonale lui ripeté:
«Si sente bene?»
Lei guardò la porta, poi chiese:
«C’è una cripta?»
«Mi scusi?»
Si sforzò di articolare bene ogni parola:
«Una cripta. Una sala per cerimonie funebri.»
Il religioso credette di aver compreso il senso della richiesta. Si dipinse in volto un’espressione di circostanza e rientrò le mani dentro le maniche:
«Chi devi sotterrare, figliola?»
«Me stessa.»
Entrando nel pronto soccorso dell’ospedale Saint-Antoine, capì che l’aspettava una nuova prova. Una prova di forza contro la malattia e la demenza.
I neon della sala d’attesa si riflettevano sui muri piastrellati di bianco e annullavano ogni luce proveniente dall’esterno. Avrebbero potuto essere le otto del mattino come le undici di sera. È calore poi rafforzava quest’impressione di vasca chiusa. Sui corpi si abbatteva una forza soffocante, inerte, come una massa plumbea, carica di odori di disinfettante. Si entrava in una zona di transito tra la vita e la morte, indipendente dalla successione delle ore e dei giorni.
Sui sedili fissati al muro erano ammassati esemplari allucinanti di un’umanità malata. Un uomo dal cranio rasato teneva la testa tra le mani e non la smetteva di grattarsi gli avambracci, depositando sul pavimento una polvere giallastra; il suo vicino, un barbone legato su una sedia a rotelle, insultava le infermiere con una voce gutturale, pregandole nello stesso tempo di rimettergli le budella a posto. Non lontano da loro, una vecchia con indosso un grembiale di carta continuava a spogliarsi mormorando parole incomprensibili ed esibendo un corpo grigio, con pieghe d’elefante e avvolto alla cintura da un pannolone.
Solo un personaggio sembrava normale; restava seduto, di profilo, vicino a una finestra. Tuttavia, quando si girava, mostrava l’altra metà del suo viso, quella incrostata di schegge di vetro e di filamenti di sangue rappreso.
Anna non era né stupita né spaventata da quella corte dei miracoli. Al contrario. Quel bunker le sembrava il luogo ideale per passare inosservata.
Quattro ore prima aveva trascinato il pope nella cripta. Gli aveva detto di essere di origine russa, fervente praticante e gravemente ammalata: voleva essere sepolta in quel luogo sacro. Il religioso si era mostrato scettico, ma l’aveva comunque ascoltata per più di mezz’ora. Così, suo malgrado, le aveva dato protezione mentre gli uomini col bracciale rosso passavano al setaccio il quartiere.
Quando era tornata in superficie la via era libera. Il sangue della sua ferita era coagulato. Ora poteva passare per le strade con il braccio nascosto sotto il kimono, senza attirare troppo l’attenzione. Avanzando a passo di corsa, benediceva Kenzo e le fantasie degli stilisti che permettevano di portare una veste da camera dando semplicemente l’impressione di essere alla moda.
Per più di due ore aveva vagato senza meta, sotto la pioggia, perdendosi tra la folla degli Champs-Elysées. Si era sforzata di non pensare, di non avvicinarsi a quegli abissi che si aprivano nella sua mente.
Era libera, viva.
E questo era già molto.
A mezzogiorno, in piace de la Concorde, aveva preso il metrò. La linea 1, direzione Château de Vincennes. Seduta in fondo a un vagone, aveva deciso, prima ancora di prendere in considerazione la fuga, di ottenere una conferma. Mentalmente aveva passato in rassegna gli ospedali che si trovavano lungo la linea e aveva scelto il Saint-Antoine, vicino alla stazione della Bastille.
Era lì che attendeva da una ventina di minuti quando fece la sua comparsa un medico con una grande busta per radiografie. La posò su di un bancone vuoto, poi si sporse per cercare qualcosa in un cassetto della scrivania. Vedendolo, Anna scattò in piedi:
«Le devo parlare subito.»
«Aspetti il suo turno», rispose lui senza voltarsi e senza neanche guardarla. «La chiameranno le infermiere.»
Anna gli prese il braccio:
«La prego. Devo fare una radiografia.»
L’uomo si girò con aria ironica, ma la sua espressione cambiò non appena la vide.
«È passata all’accettazione?»
«No.»
«Non ha consegnato il suo tesserino del servizio sanitario?»
«Non ce l’ho.»
Il medico la studiò dalla testa ai piedi. Era alto, robusto, scuro di carnagione e portava un camice chiuso e zoccoli dalla suola di sughero. Con la sua pelle abbronzata, la blusa scollata a V su un petto villoso e ornato da una catena d’oro, sembrava il classico playboy della commedia all’italiana. La squadrò senza alcun imbarazzo, con un sorriso da intenditore sulle labbra. Con un gesto indicò il kimono strappato e il sangue coagulato:
«È per il braccio?»
«No. Io… Ho male al volto. Devo fare una radiografia.»
Lui alzò un sopracciglio, si grattò i peli del petto, il crine duro dello stallone.
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