Terzo foglio: un martello che piantava uno scalpello all’interno di una narice. Anna si obbligava a guardare, facendo violenza al suo cuore.
Nella foto seguente, un bisturi tranciava una palpebra sopra un occhio tolto dall’orbita.
Sollevò la testa. Era riuscita a intrappolare il medico, ora non doveva fare altro che continuare.
«È impossibile che queste operazioni non lascino alcuna traccia», disse lei.
Laferrière sospirò. Frugò ancora nel mobile, poi posò sul tavolo un secondo classificatore. Con voce stanca commentò la prima immagine:
«La molatura di una fronte. Per via endoscopica. Quattro mesi dopo l’operazione.»
Anna osservò con attenzione il volto operato. Sulla fronte, alla radice dei capelli, si disegnavano tre tratti verticali di quindici millimetri ciascuno. Il chirurgo voltò pagina:
«Prelievo dell’osso parietale, per un innesto. Due mesi dopo l’intervento.»
La foto mostrava una testa con i capelli tagliati a spazzola, sotto i quali si distingueva nettamente una cicatrice rosastra a forma di S.
«I capelli ricoprono in fretta il segno, che poi finisce per scomparire», aggiunse.
Fece schioccare i fogli girandoli:
«Triplo lifting in endoscopia. La sutura è intradermica, il filo riassorbibile. Un mese dopo, non si vede più praticamente niente.»
Le due viste di un orecchio, di fronte e di profilo, si spartivano la pagina. Sulla cresta superiore del lobo, Anna scorse un minuscolo zig-zag.
«Liposuzione del collo», proseguì Laferrière mostrando una nuova foto. Due mesi e mezzo dopo l’operazione. La linea che vediamo qui è destinata a scomparire. È l’intervento che cicatrizza meglio.
Girò ancora una pagina e insistette, con tono provocatorio, quasi sadico:
«E se vuole una panoramica, ecco la radiografia computerizzata di un volto che ha subito un innesto agli zigomi. Sotto la pelle, le tracce dell’intervento restano sempre…»
Era l’immagine più impressionante. Un teschio bluastro, le cui pareti ossee mostravano viti e fessurazioni.
Anna richiuse il classificatore.
«La ringrazio. Era assolutamente necessario che vedessi tutto questo.»
Il medico girò intorno alla scrivania e la osservò intensamente, come se cercasse ancora di scoprire nei suoi lineamenti il movente nascosto di quella visita.
«Ma… ma insomma, non capisco, cosa sta cercando?»
Lei si alzò e infilò il cappotto morbido e nero. Per la prima volta, sorrise:
«Devo innanzitutto giudicare prove alla mano.»
Le due del mattino.
La pioggia, ancora la pioggia; un brontolio, una cadenza, un martellamento continuo. Con i suoi accenti, le sue sincopi, le sue sonorità differenti sui vetri, sui balconi, sui parapetti di pietra.
Anna è in piedi davanti alle finestre del salone. Ha una felpa e i pantaloni della tuta da ginnastica, trema di freddo.
Nell’oscurità, scruta attraverso i vetri la sagoma del platano centenario. Le sembra uno scheletro di corteccia che galleggia nell’aria. Ossa bruciate, segnate da filamenti di licheni, quasi argentati nel riverbero. Artigli nudi che attendono il loro rivestimento di pelle: le foglie della primavera.
Abbassa lo sguardo. Sul tavolo, davanti a lei, ci sono gli oggetti che ha comprato nel pomeriggio, dopo esser stata dal chirurgo. Una piccola torcia elettrica della Maglite; una macchina fotografica Polaroid per foto notturne.
Da più di un’ora, Laurent dorme in camera da letto. Lei è restata al suo fianco, a sorvegliare il suo sonno. Ha spiato i suoi leggeri trasalimenti, gli scatti del corpo che rivelano l’inizio dell’assopimento. Poi ha ascoltato la sua respirazione divenuta regolare, incosciente.
Il primo sonno.
Il sonno profondo.
Lei raduna il materiale. Mentalmente dice addio all’albero lì fuori, a quell’ampia stanza dal parquet venato, ai divani bianchi. E a tutte le sue abitudini legate a quell’appartamento. Se ha ragione, se quello che ha immaginato è reale, allora dovrà fuggire. E cercare di capire.
Risale lungo il corridoio. Cammina con una tale attenzione da arrivare a percepire il respiro della casa: gli scricchiolìi del parquet, il brontolio della caldaia, il brivido delle finestre tormentate dalla pioggia…
Si infila nella camera da letto.
Giunta al letto, posa in silenzio l’apparecchio fotografico sul comodino, poi orienta la torcia verso il pavimento. Le mette la mano davanti, prima di liberare il piccolo fascio alogeno che le sta scaldando il palmo.
Solo allora si china su suo marito, trattenendo il respiro.
Nel raggio della lampada vede il profilo immobile, il corpo disegnato con pieghe morbide sotto le coperte. A quella vista le si chiude la gola. Per poco non desiste, non molla tutto, ma si riprende.
Passa una prima volta il fascio di luce sul viso.
Nessuna reazione: può cominciare.
Da principio, solleva leggermente i capelli e osserva la fronte: non trova nulla. Nessuna traccia delle tre cicatrici viste sulla foto di Laferrière.
Abbassa la torcia verso le tempie; nessun segno. Esplora la parte inferiore del viso, sotto la mascella, sotto il mento: neanche l’ombra di un’anomalia.
Viene colta ancora dal tremore. E se fosse soltanto un altro delirio? Un nuovo capitolo nella storia della sua follia? Si contrae e prosegue il suo esame.
Si avvicina alle orecchie, tocca molto dolcemente il lobo superiore per scrutarne la cresta. Non c’è la minima irregolarità. Gli solleva leggermente le palpebre, alla ricerca di una incisione. Non c’è niente. Scruta le pinne del naso, l’interno delle pareti nasali. Niente.
Ora è madida di sudore. Tenta ancora di attenuare il rumore del suo respiro, ma il fiato le sfugge, dalle labbra, dalle narici.
Le viene in mente un’altra cicatrice possibile. La sutura a S sul cranio. Si rialza, mette lentamente la mano tra i capelli di Laurent, alzando qualche ciocca, puntando la lampada su ogni radice. Non c’è niente. Nessuna fessura. Nessun rilievo irregolare. Niente. Niente. Niente.
Anna reprime i singhiozzi, frugando ora senza precauzione quella testa che la tradisce, che dimostra che lei è pazza, che lei…
Una mano le blocca brutalmente il polso.
«Cosa stai cercando?»
Anna fa un salto indietro. La sua torcia rotola a terra. Laurent intanto si è messo a sedere. Accende la lampada sul comodino ripetendo:
«Cosa stai cercando?»
Laurent scorge la Maglite sul pavimento, la Polaroid sul tavolino:
«Cosa significa questo?» chiede con una smorfia.
Anna, prostrata contro il muro, non risponde. Laurent getta di lato le coperte, si alza e raccoglie la torcia elettrica. Guarda l’oggetto con aria disgustata, poi lo brandisce in faccia a lei.
«Mi stavi osservando, non è vero? In piena notte? Santo Dio: cos’è che cerchi?»
Silenzio di Anna.
Laurent si passa la mano sulla fronte e sbuffa stancamente. Indossa solo i boxer. Apre la porta della cabina armadio; senza una parola prende un paio di jeans e una maglia. Poi esce dalla camera, abbandonando Anna alla sua solitudine, alla sua follia.
Lei si lascia scivolare contro il muro, si raggomitola sulla moquette. Non pensa a niente, non sente niente. Solo i colpi nel suo petto, sempre più forti.
Laurent riappare sulla soglia, ha in mano il cellulare. Sfoggia un curioso sorriso e scuote la testa con compassione, come se, in quei pochi minuti, si fosse calmato, fosse tornato alla ragionevolezza.
Indicando il telefono, con voce dolce dice:
«Andrà meglio. Ho chiamato Eric. Domani ti porto all’istituto.» Si china su di lei, la tira su, poi la conduce lentamente verso il letto. Anna non oppone resistenza. Lui la siede, con precauzione, come se avesse paura di romperla o, al contrario, di liberare da lei qualche forza pericolosa.
Читать дальше