Quasi nello stesso momento, una vetrata al terzo piano del palazzo di fronte si aprì. Ne spuntò un uomo con le due braccia tese su di una pistola cromata. Guardò intorno per un po’, prima di individuarla, obiettivo perfetto sulla sua linea di tiro.
In basso risuonò un nuovo galoppo. Altri tre uomini avevano raggiunto i primi due. Tra loro c’era Nicolas, l’autista. Tutti stringevano tra le mani lo stesso fucile mitragliatore dal caricatore ricurvo.
Lei chiuse gli occhi e aprì le braccia per trovare l’equilibrio. Si sentiva abitata da un grande silenzio che annientava ogni pensiero e che le dava una strana serenità. Continuò ad avanzare: le palpebre chiuse, le braccia allargate. Sentiva Laurent che gridava ancora:
«Non sparate! Santo Dio: ci serve viva!»
Riaprì gli occhi. Con un distacco incomprensibile, ammirò la perfetta simmetria del balletto. A destra, Laurent, pettinato con cura, che gridava alla radio tendendo l’indice verso di lei. Di fronte, il franco tiratore, immobile, le mani saldate alla pistola; poteva vederne il microfono fissato vicino alle labbra. In basso, i cinque uomini in posizione di tiro, la faccia alzata, i gesti bloccati.
E nel bel mezzo di quell’esercito: lei. Sagoma di gesso drappeggiata di nero, nella posizione del Cristo in croce.
Sentì la forma curva di una grondaia. S’inarcò in avanti, passò la mano dall’altra parte, poi strisciò sopra l’ostacolo. Qualche metro più in là, una finestra la fermò. Cercò di ricordarsi la configurazione del palazzo: quella finestra dava sulla scala di servizio.
Sollevò il gomito, poi lo sbatté violentemente indietro. Il vetro resistette. Riprese slancio, picchiò ancora, con tutte le sue forze. Il vetro si infranse. Spinse con i piedi e si lasciò cadere all’indietro. La cornice cedette sotto la pressione. Il grido di Laurent la accompagnò nella sua caduta:
«NON SPARATE!»
Ci fu un attimo di sospensione, un’eternità, poi ricadde su una superficie dura. Il suo corpo fu attraversato da una fiamma nera. Una tempesta di colpi. La schiena, le braccia, i talloni andarono a sbattere su spigoli vivi, mentre il dolore esplodeva in mille risonanze dentro di lei. Rotolò su se stessa. Le gambe le passarono sopra la testa. I mento si schiantò sulla cassa toracica e le mozzò il respiro.
Poi fu il nulla.
Da prima il gusto della polvere. Poi quello del sangue. Anna stava riprendendo conoscenza. Rimaneva raggomitolata, in posizione fetale, in fondo a una scala. Alzando gli occhi, vide un soffitto grigio e un globo di luce gialla. Si trovava esattamente dove aveva sperato: nella scala di servizio.
Si attaccò alla ringhiera e si rimise in piedi. Niente di rotto, in apparenza. Trovò solo un taglio lungo il braccio destro: un pezzo di vetro aveva lacerato il tessuto e si era conficcato vicino alla spalla. Era poi ferita alla gengiva; la bocca era piena di sangue, ma i denti sembravano a posto.
Estrasse lentamente il frammento di vetro, poi, con un gesto secco, strappò la parte inferiore del kimono e ne fece una sorta di laccio e di bendatura.
Stava già riordinando le idee. Una rampa l’aveva discesa con la schiena, quel pianerottolo doveva dunque essere quello del secondo piano. I suoi inseguitori non avrebbero tardato a spuntare dal piano terra. Salì gli scalini a quattro a quattro, superando il proprio piano, poi il quarto e il quinto.
La voce di Laurent esplose immediatamente dentro la spirale delle scale:
«Sbrigatevi! Sta raggiungendo l’altro edificio attraverso le mansarde.»
Lei accelerò e raggiunse il settimo piano, ringraziando mentalmente Laurent per l’informazione.
Si gettò nel corridoio delle camere di servizio e corse, incrociando delle porte, delle bacinelle, dei lavabo, poi, infine, un’altra scala. Vi si precipitò, superò di nuovo diversi pianerottoli quando, in un flash, capì il tranello. I suoi inseguitori comunicavano per radio. L’avrebbero attesa alla base di quell’edifico, mentre altri sarebbero spuntati alle sue spalle.
In quello stesso momento sentì alla sua sinistra il rumore di un aspirapolvere. Non sapeva più a che piano si trovava, ma ormai non aveva importanza: quella porta si apriva su un appartamento che, a sua volta, avrebbe dato accesso a nuove scale.
Picchiò contro la porta con tutte le sue forze.
Non sentiva più niente. Né i colpi nella mano, né i battiti nella cassa toracica.
Bussò ancora. Sopra di lei risuonava una cavalcata che si stava avvicinando a gran velocità. Le pareva poi di sentire altri passi risalire dal basso. Si gettò di nuovo sulla porta, usando i pugni come mazze, urlando richieste di aiuto.
Alla fine le aprirono.
Nell’apertura della porta comparve una donnetta con un grembiule rosa. Anna la spinse via con la spalla, e richiuse la porta blindata. Diede due giri di chiave e poi se la ficcò in tasca.
Si girò e vide un’ampia cucina, di un bianco immacolato. Stupefatta, la donna delle pulizie restava appesa alla propria scopa.
Anna le gridò in faccia:
«Non deve aprire per nessun motivo, ha capito?»
La afferrò per le spalle e ripeté:
«Per nessun motivo, d’accordo?»
Dall’altra parte stavano già bussando.
«Polizia! Aprite!»
Anna fuggì attraverso l’appartamento. Prese un corridoio, superò diverse camere. Ci impiegò qualche secondo a capire che quell’appartamento era sistemato come il suo. Girò a destra per cercare il salone. Grandi quadri, mobili di legno rosso, tappeti orientali, divani più larghi che materassi. Doveva ancora girare a sinistra se voleva arrivare in ingresso. Partì di slancio, inciampò in un cane, un grosso e pacifico labrador, poi sbatté contro una donna con l’accappatoio e l’asciugamano in testa.
«Lei… lei chi è?» urlò quella tenendo il suo turbante come una giara preziosa.
Anna per poco non scoppiò a ridere: non era certo una domanda da porle quel giorno. La spinse via, raggiunse l’entrata e aprì la porta. Stava per uscire quando vide, sopra un tavolino di mogano, delle chiavi e un telecomando: il parcheggio. Tutti quegli edifici accedevano allo stesso parcheggio sotterraneo. Prese il telecomando e si gettò nella scala tappezzata di velluto porpora.
Poteva fregarli, se lo sentiva.
Scese direttamente nell’interrato. Il petto le bruciava. La sua gola afferrava l’aria con brevi respiri. Ma il suo piano andava chiarendosi nella sua mente. La trappola degli sbirri sarebbe scattata al piano terra. Nel frattempo lei se ne sarebbe andata passando per la rampa del garage. Quell’uscita si apriva dall’altra parte dell’isolato, in rue Daru. C’era da scommetterci che a quella via non avevano pensato…
Una volta scesa nel parcheggio, senza accendere la luce, attraversò di corsa lo spazio in cemento, in direzione della porta basculante. Stava per usare il telecomando, quando il portone si aprì da solo. Quattro uomini armati stavano scendendo la rampa. Aveva sottovalutato il nemico. Ebbe appena il tempo di nascondersi dietro un auto; le due mani appoggiate al suolo.
Li vide passare, sentì la vibrazione delle loro suole pesanti e ci mancò poco che non scoppiasse in singhiozzi. I quattro frugavano tra le vetture, spazzando il suolo con le torce. Si appiattì contro il muro e si accorse che il suo braccio era tutto appiccicoso di sangue. Il laccio si era allentato. Lo serrò di nuovo, tirandolo con i denti, mentre i suoi pensieri correvano, in cerca d’ispirazione.
Gli inseguitori si stavano allontanando lentamente, frugando, ispezionando, scrutando ogni parcella del perimetro. Ma sarebbero ritornati sui loro passi e avrebbero finito per scoprirla. Si guardò ancora intorno e scorse una porta grigia a qualche metro sulla sua destra. Se la memoria non la ingannava, quell’uscita portava a un palazzo che dava anch’esso sulla rue Daru.
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