Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Ti avviso», fece Schiffer varcando la soglia, «è folle per Tansu Ciller.»

«Chi è? Un calciatore?»

Schiffer ridacchiò. Salirono una grande scala di legno grigio.

«Tansu Ciller è l’ex primo ministro turco. Studi ad Harvard, diplomazia internazionale, Ministero degli affari esteri. Poi la direzione del governo. Un modello di successo.»

Paul assunse un tono disincantato:

«Il percorso classico di un uomo politico.»

«Solo che Tansu Ciller è una donna.»

Superarono il secondo piano. Ogni pianerottolo era vasto e scuro come una cappella. Paul osservò:

«Non deve essere comune, in Turchia, che un uomo prenda una donna come modello.»

Il Cifra scoppiò a ridere:

«Se tu non esistessi, bisognerebbe inventarti. Anche Gozar è una donna! È una teyze. Una “zia”, una madrina, in senso lato. Veglia sui suoi fratelli, sui suoi nipoti, sui suoi cugini e su tutti gli operai che lavorano per lei. Si occupa di regolarizzare la loro situazione. Manda della gente a sistemare i loro tuguri. Si incarica della spedizione dei loro pacchi e dei loro soldi. All’occorrenza, unge gli sbirri perché li lascino in pace. È una negriera, ma una negriera benevola.»

Terzo piano. Il deposito della Halman consisteva in una grande sala, con i parquet verniciati di grigio e disseminati di pezzi di polistirolo e di carta velina spiegazzata. Al centro della stanza, degli assi appoggiati su cavalletti fungevano da bancone. Sopra c’erano scatole, cesti in plastica, sacchi di tessuto rosa a quadretti con il marchio TATI, custodie per abiti…

Alcuni uomini estraevano dagli imballi mantelli, giacconi, stole. Li palpavano, li lisciavano, verificavano le fodere, poi mettevano i capi su grucce sospese. Di fronte a loro, delle donne con il foulard stretto intorno al capo, la gonna lunga e il viso di corteccia scura sembravano attendere il loro verdetto con aria esausta.

Lo spazio era dominato da un soppalco vetrato e velato da una tenda bianca: un punto ideale per osservare quel piccolo mondo. Senza esitare e senza salutare nessuno, Schiffer afferrò la ringhiera e diede l’assalto ai ripidi scalini che conducevano alla piattaforma.

Giunti in alto, dovettero affrontare un muro di piante verdi, prima di entrare in uno stanzone mansardato, grande quasi quanto la sala inferiore. Le finestre, incorniciate dalle tende, si aprivano su un paesaggio di ardesia e di zinco: i tetti di Parigi.

Il luogo era arredato in modo così pesante che, malgrado le sue dimensioni, ricordava un boudoir dei primi del Novecento. Paul avanzò e colse i primi dettagli. Vide le tovagliette ricamate che ricoprivano il computer, lo stereo e la televisione e che mettevano in risalto le cornici con le foto, i soprammobili in vetro e le grandi bambole annegate nei merletti. I muri erano ricoperti di poster turistici che mostravano le bellezze di Istanbul. Appesi nei vani delle porte, come fossero tapparelle, c’erano dei kilim dai colori vivaci. Le bandiere turche in carta, appese un po’ ovunque, facevano il paio con le cartoline fissate a grappolo con le puntine sulle colonne in legno che sostenevano il tetto.

La parte destra della stanza era occupata da una scrivania in quercia massiccia, mentre nella zona centrale un divano di velluto verde troneggiava su un grande tappeto. Nessuno.

Schiffer si diresse verso un vano nascosto da una tenda di perle e tubò:

«Mia principessa, sono io, Schiffer. Non stare a rifarti il trucco.»

Gli rispose il silenzio. Paul fece qualche passo e osservò da vicino alcune fotografie. In ognuna di esse, una rossa dai capelli corti, piuttosto graziosa, sorrideva al fianco di illustri presidenti: Bill Clinton, Boris Eltsin, François Mitterrand. Senza dubbio era la famosa Tansu Ciller…

Un ticchettio lo fece voltare. La tenda di perle si aprì davanti alla donna delle fotografie, in carne e ossa, solo in versione più massiccia.

Gozar Halman aveva accentuato la propria rassomiglianza con il primo ministro per avere ancora più autorità. I suoi vestiti, tunica e pantaloni neri, appena ravvivati da qualche gioiello, erano un inno alla sobrietà. I suoi gesti e il suo contegno tradivano un distacco altezzoso da donna d’affari.

Il suo aspetto sembrava tracciare intorno a lei una linea invisibile. Il messaggio era chiaro: evitare ogni tentativo di seduzione.

Tuttavia, il viso indicava un atteggiamento diverso, quasi opposto. Era una grande faccia bianca, da luna piena, incorniciata da capelli vermigli, dove gli occhi, truccati con ombretto arancione e brillantini, scintillavano violentemente.

«Schiffer», disse lei con voce rauca, «io so perché sei qui.»

«Finalmente una persona perspicace!»

Gozar sistemò qualche foglio sulla sua scrivania, con noncuranza:

«Immaginavo che prima o poi ti avrebbero tirato fuori dalla naftalina.»

Non aveva un vero accento, solo una leggera oscillazione nel tono che veniva a scuotere il finale di ogni frase e che lei sembrava coltivare con civetteria.

Schiffer fece le presentazioni, abbandonando per l’occasione il suo tono beffardo. Paul sentì che lui e la donna combattevano ad armi pari.

«Che cosa sai?» Chiese lui senza preamboli.

«Niente. Meno di niente.»

Lei si chinò ancora per qualche istante sulla scrivania, poi andò a sedersi sul divano, accavallando piano le gambe.

«Il quartiere ha paura», disse. «Si dicono tante cose.»

«Sarebbe?»

«Voci. Ipotesi contraddittorie. Ho persino sentito dire che l’assassino sarebbe uno dei vostri.»

«Dei nostri?»

«Sì, un poliziotto.»

Schiffer spazzò via quell’idea con il dorso della mano.

«Parlami di Ruya Berkes.»

Gozar accarezzò il centrino che copriva i bracciolo del divano:

«Consegnava i suoi pezzi ogni due giorni. È venuta il 6 gennaio 2002, non l’8. È tutto quello che posso dire.»

Schiffer tirò fuori dalla tasca un quadernetto e sembrò leggervi qualcosa. Paul capì che lo faceva solo per darsi un contegno. La teyze gli stava davvero tenendo testa.

«Ruya è la seconda vittima dell’assassino», continuò lui con gli occhi bassi sulle pagine. «Il corpo che abbiamo ritrovato il 10 gennaio.»

«Che Dio accolga la sua anima», rispose, continuando a giocherellare con le dita intorno al pizzo. «Ma questo non mi riguarda.»

«Vi riguarda tutti. E io ho bisogno di informazioni.»

Il tono saliva, ma Paul sentiva una strana complicità in quel dialogo. Una complicità tra il fuoco e il ghiaccio, che non aveva niente a che vedere con l’inchiesta.

«Non ho niente da dire», ripeté. «Su questa storia il quartiere si chiuderà. Come sulle altre.»

Le parole, la voce, il tono indussero Paul a osservare meglio la donna. Col suo sguardo nero sotto l’oro rosso, fissava il Cifra. Gli fece pensare a delle lamelle di cioccolato ripiene di scorza d’arancia. Ma soprattutto, in quel momento comprese una realtà implicita: Gozar Halman era la donna turca che Schiffer era stato sul punto di sposare. Che cos’era successo? Perché la storia era finita male?

La commerciante di pellicce accese una sigaretta. Lunghe boccate di stanchezza azzurrognola.

«Che cosa vuoi sapere?»

«Quand’è che consegnava i suoi capi?»

«A fine giornata.»

«Da sola?»

«Da sola. Sempre.»

«Sai che strada faceva?»

«Rue du Faubourg-Poissonnière. A quell’ora è piena di gente, se è quello che vuoi dire.»

Schiffer passò ai dati personali:

«Quand’è che Ruya Berkes è arrivata a Parigi?»

«Nel maggio 2001. Non hai parlato con Marius?»

Lui ignorò la domanda.

«Una campagnola, ma aveva conosciuto anche la città.»

«Adana?»

«Prima Gaziantep, poi Adana.»

Schiffer si sporse e sembrò interessarsi a quel dettaglio:

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