Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«Dove possiamo trovarlo?»

«Da nessuna parte. È tornato al paese.»

Le risposte di Tanoï erano dure come le cuciture del suo camice.

«Non ha cercato di recuperare il corpo?»

«Non aveva documenti. Non parlava francese. È scappato con il suo dolore. Un destino da turco. Un destino d’esilio.»

«Niente sviolinate. Dove sono gli altri colleghi?»

«Quali colleghi?»

«Quelli che rientravano con lei. Voglio interrogarli.»

«Impossibile. Tutti partiti. Svaniti.»

«Perché?»

«Hanno paura.»

«Dell’assassino?»

«Di voi. Della polizia. Nessuno vuole trovarsi immischiato in quest’affare.»

Il Cifra si piantò di fronte al turco, le mani unite dietro la schiena.

«Io credo che tu sappia molte più cose di quanto tu non dica, amico mio. Allora scendiamo insieme nelle tue cantine. Forse questo ti ispirerà.»

L’altro non si muoveva. Le macchine da cucire crepitavano. La musica serpeggiava sotto l’ossatura d’acciaio. Esitò ancora qualche istante, poi si diresse verso una scala di ferro collocata sotto una delle passerelle.

I poliziotti lo seguirono. In fondo agli scalini sprofondarono in un corridoio oscuro, superarono una porta di metallo e poi presero un nuovo corridoio dal pavimento in terra battuta. Per continuare dovettero abbassarsi. Il loro percorso era segnato da lampadine nude, sospese tra le tubature del soffitto. Ai lati si aprivano due file di porte di assi numerate con il gesso. Dal fondo di quelle viscere saliva un brontolio.

A una svolta la loro guida si fermò e prese una barra di ferro nascosta dietro un vecchio divano con le molle in vista. Avanzando con passo prudente, si mise a colpire i tubi del soffitto ottenendone risonanze gravi.

All’improvviso apparvero i nemici invisibili. Topi; accalcati sopra un arco di ghisa, appostati sopra le loro teste. Paul si ricordò delle parole del medico legale: La seconda era diverso. Penso che abbia utilizzato qualcosa di… vivo.

Il capo officina bestemmiò in turco e diede un colpo con tutte le sue forze nella loro direzione; i roditori sparirono. Ora, il corridoio vibrava per tutta la sua lunghezza. Ogni porta tremava sui propri cardini. Infine Tanoï si fermò davanti al numero 34.

Con una spallata aprì la porta. Si presentò un’officina in miniatura. Una trentina di donne stavano sedute davanti a macchine da cucire che giravano a pieno regime, come impazzite per la loro stessa velocità. Chine sotto le lampade fluorescenti, le operaie spingevano pezzi di tessuto sotto gli aghi, senza prestare la minima attenzione ai visitatori.

La stanza non era più grande di venti metri quadri e non aveva alcuna ventilazione. Odore di tintura, particelle di stoffa, puzza di solventi: l’aria era così spessa che si poteva appena respirare. Alcune donne portavano il foulard sulla bocca. Altre tenevano sulle ginocchia dei neonati avvolti negli scialli. C’erano anche bambini che lavoravano, a gruppi, vicino a cumuli di tessuti, piegavano le pezze e le mettevano nelle scatole. Paul soffocava. Era come quei personaggi da film che si svegliano in piena notte e scoprono che il loro incubo è reale.

Schiffer assunse un tono da severo tutore della legge:

«Ecco il vero volto delle imprese Sürelik! Dalle dodici alle quindici ore di lavoro, migliaia di pezzi al giorno per ogni operaia. I tre turni in versione turca, con due squadre soltanto, quando non è una sola. E, bada ragazzo mio, in ogni cantina troviamo la stessa disposizione.»

Sembrava gioire della crudeltà dello spettacolo.

«Ma attenzione: tutto questo avviene con la benedizione dello Stato. Tutti chiudono gli occhi. L’industria dell’abbigliamento è fondato sullo schiavismo.»

Il turco si sforzava di assumere un’aria pentita, ma in fondo ai suoi occhi brillava una luce fiera. Paul osservò le operaie. Qualche sguardo si alzò, di rimando, ma le mani continuavano il loro traffico, come se niente e nessuno potesse ostacolare quel movimento.

A quei visi opachi sovrappose i lunghi tagli e le croste di sangue delle vittime. Come faceva l’assassino ad accedere a quelle donne sotterranee? Come aveva scoperto la loro somiglianza?

Gridando a squarciagola, il Cifra riprese l’interrogatorio:

«Quando le squadre cambiano è il momento in cui i corrieri caricano il lavoro fatto, giusto?»

«Esatto.»

«Se ci aggiungiamo le operaie che escono dalla fabbrica, dobbiamo ammettere che c’è parecchia gente in strada alle sei del mattino. Nessuno ha visto niente?»

«Glielo giuro.»

Il poliziotto si appoggiò al muro di pietre squadrate:

«Non giurare. Il tuo dio è meno clemente del mio. Hai parlato con i principali delle altre vittime?»

«No.»

«Menti, ma non è grave. Cosa sai a proposito di questa serie di omicidi?»

«Dicono che le donne sono state torturate e sfigurate. Non so altro.»

«Nessun poliziotto è venuto a farti visita?»

«No.»

«E le vostre milizie cosa fanno?»

Paul trasalì… Non aveva mai sentito parlare di quella roba. Il quartiere aveva dunque una propria polizia. Tanoï gridava per coprire il rumore delle macchine:

«Non lo so. Non hanno trovato niente.»

Schiffer indicò le operaie:

«E loro che cosa ne pensano?»

«Non osano più uscire. Hanno paura. Allah non può permettere tutto questo. Il quartiere è maledetto! Azraël, l’angelo della morte, è qui!»

Il Cifra sorrise, diede una pacca amichevole all’uomo e indicò la porta:

«Alla buon’ora. Finalmente un po’ di buona vecchia umanità…»

Uscirono nel corridoio. Paul li seguì, poi richiuse gli assi sull’inferno delle macchine. Non aveva ancora terminato quel gesto che avvertì un rantolo soffocato. Schiffer stava sbattendo Tanoï contro le tubature.

«Chi uccide le ragazze?»

«Io… io non lo so.»

«Chi state coprendo, pezzi di merda?»

Paul non intervenne. Immaginava che Schiffer non sarebbe andato più in là. Solo un ultimo sfogo di rabbia, un’ultima impennata. Tanoï, con gli occhi fuori dalla testa, non rispondeva.

Il Cifra lasciò la presa, concedendogli il tempo di riprendere fiato, mentre la luce cruda della lampadina oscillava come un pendolo ossessivo; poi mormorò:

«Adesso tu chiudi a chiave la bocca su tutto questo, Tanoï. Non una parola sulla nostra visita, a nessuno.»

Il capo officina alzò gli occhi verso Schiffer. Aveva già ritrovato la sua espressione servile.

«La mia bocca è sempre chiusa a chiave, signor ispettore.»

35.

La seconda vittima, Ruya Berkes, non lavorava in un laboratorio, ma a domicilio, in rue d’Enghien al numero 58.

Cuciva a mano fodere per pellicce che poi consegnava alla pellicceria di Gozar Halman, al 77 di rue Sainte-Cécile, una via perpendicolare all’asse del Faubourg Poissonière. Avrebbero potuto cominciare dall’appartamento dell’operaia, ma Schiffer preferiva interrogare prima il principale, che sembrava essere una sua vecchia conoscenza.

Paul guidava in silenzio, gustandosi il ritorno all’aria aperta. Ma già guardava con apprensione ai nuovi scenari. Man mano che si allontanavano dalla rue du Faubourg-Saint-Denis e dalla rue du Faubourg-Saint-Martin, vedeva le vetrine che si scurivano, appesantite da roba di color bruno morbidamente piegata. In ogni negozio, gli scampoli e i tessuti lasciavano il posto alle pellicce.

Girò a destra, in rue Sainte-Cécile.

Schiffer lo fermò: erano arrivati al 77.

Questa volta, Paul si aspettava una cloaca piena di pelli appena strappate, gabbie incrostate di sangue, odore di carne morta. E invece gli si presentò un piccolo cortile, chiaro e fiorito, il cui acciottolato sembrava appena incerato dall’umidità del mattino. I due poliziotti lo attraversarono per raggiungere, al fondo, un edificio punteggiato di finestre e di inferriate, il solo la cui facciata evocasse un sito industriale.

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