Il modo incantato, quasi ammaliato, in cui Giunio girava continuamente la testa, soffermandosi ad ammirare ogni cosa, aveva già suscitato più di un moto di stizza in Sestilio, che ormai lo trattava apertamente alla stregua di un campagnolo ignaro di qualsiasi uso di mondo. Giunio se ne accorse, ma non si adontò. Il giovane patrizio aveva ragione: le uniche cose grandiose che avesse mai visto erano le vette delle Alpi.
Marzio, invece, sembrava orgoglioso di potergli mostrare gli splendori dell’Urbe e continuava a non lesinare le spiegazioni, qualsiasi fosse la struttura o l’oggetto che attirava lo sguardo del suo affascinato pupillo.
«L’altura che vedi di fronte a noi», disse, «è il colle del Campidoglio, con i templi di Giove e Giunone. In basso, sotto il Tabularium , ci sono invece quello della Concordia e quello di Vespasiano, appena ultimato. A destra, nel tempio di Saturno, viene custodito l’immenso tesoro dello stato. Migliaia e migliaia di libbre d’oro e argento, Giunio. Pietre preziose e monete per milioni e milioni di sesterzi.»
Quindi compì una rotazione completa del busto e continuò nella spiegazione: «Quello, invece, è l’arco di Augusto, fatto erigere dal senato per celebrare la restituzione delle insegne legionarie catturate dai parti. Proprio sotto quell’arco sfileremo nei prossimi giorni, e il mio nome sarà scolpito nella lapide interna, accanto a quello di tanti altri eroici condottieri». La sua voce aveva assunto toni di un’euforia che a Giunio risultava completamente nuova ma del tutto comprensibile.
«All’interno di quel tempio rotondo, dedicato a Vesta, arde il fuoco sacro», proseguì, mentre dirigevano verso il Palatino. «E quelle costruzioni sono le sedi dei pubblici uffici e dei tribunali.»
E finalmente, abbandonata la piazza del Foro e percorsa la via Sacra, il terzetto raggiunse la residenza dell’imperatore, sul cui monumentale ingresso dovette passare tra una lunga, doppia schiera di guardie e sottostare al controllo dei pretoriani, che procedettero alla loro identificazione e si accertarono che fossero attesi da Vespasiano, dopo di che ordinarono a due militari di condurre gli ospiti al cospetto del sovrano. Attraversarono sale sfarzose, con fontane zampillanti e colonne. Ogni cosa sembrava concepita per esaltare il potere dell’imperatore. Al centro esatto della residenza si trovava un immenso peristilio rettangolare, delimitato da un portico in marmo numidico, i cui capitelli corinzi sembravano capaci di sorreggere il mondo come Adante. Al centro spiccava una grandiosa fontana a forma ottagonale, tra i cui alti giochi d’acqua si distingueva un blocco statuario in bronzo ricoperto d’oro. Le fattezze delle divinità che lo componevano ricordarono a Giunio certi busti che aveva visto anche agli estremi confini dell’impero: vi erano raffigurati l’imperatore e i suoi figli Tito e Domiziano.
Giunsero infine di fronte a una porta in bronzo, davanti a cui stazionavano due littori con i grandi fasci armati tra le braccia. Al loro arrivo si spalancò di scatto; sentirono uno schiavo annunziare con voce stentorea i loro nomi. Furono introdotti in un’immensa sala, non coperta da una volta a cupola ma con diverse capriate che sostenevano uno sterminato soffitto a cassettoni, decorato con dipinti ricorrenti dai colori tenui; nelle pareti mirabilmente affrescate dominavano invece i toni purpurei, ocra e i verdi accesi.
Vespasiano imperatore sedeva in fondo alla sala, a più di quaranta passi dall’ingresso, su un trono coperto di seta arabescata; alla sua destra era assiso il collaboratore più fidato: il figlio Tito. Nella sala si trovavano altri cinque uomini, che Giunio comprese essere senatori dal laticlavio.
Quante cose nuove. Persino troppe. Ricordò improvvisamente le parole del suo signore circa la diversità dei rischi che si possono correre in battaglia e nella vita politica, dove essi possono essere infinitamente più sottili e subdoli.
Accolto il loro reverente inchino, l’imperatore prese subito la parola, rivolgendosi con solennità a Marzio: «Legato dell’impero», disse, «ho appreso dei tuoi valorosi successi sul Reno, che fin dai tempi del divino Augusto sembrava costituire l’estremo limite nordorientale dell’impero di Roma. Oggi, invece, grazie a te, so che così non è. Da quanto mi risulta, le legioni al tuo comando hanno ampliato i territori di Roma per centinaia di miglia, costringendo alla sottomissione popoli feroci e ribelli che costituivano una grave minaccia per la romanità. La conquista di città e territori ha già fruttato cospicui bottini, e mi risulta che ulteriori tesori mi sono recati in dono da te. Per il tuo valore, Publio Marzio, ho deciso ti venga tributato l’onore del trionfo militare, che sarà celebrato da oggi a…» — si girò verso Tito, che gli suggerì la data — «da oggi, dicevo, a dodici giorni. Così ho deciso». La faccia dell’imperatore era arrossata dallo sforzo di parlare a voce così alta, onde rendere più solenne il suo dire e farlo amplificare dalle volte della sala.
La conclusione del discorso equivaleva comunque a un congedo, sicché, disciplinati, non appena Marzio ebbe consegnato nelle mani di Tito una copia delle dodici pergamene dell’inventario meticolosamente stilato da Giunio, i tre lasciarono la sala delle udienze.
«Chissà», pensò il giovane, reso sfrontato dalla sua stessa ingenuità e inesperienza. «Chissà che tutto quel luccicare di gemme non addolcisca un poco la tua freddezza, divino Vespasiano. Dal canto mio», non poté trattenersi dal concludere, «sarei pronto a giurarci.»
Mai avrebbe immaginato di poter provare così poco timore reverenziale al cospetto di un imperatore. Ma nella sua memoria si affollavano troppi aneddoti irriverenti sentiti raccontare nelle camerate ai margini dell’impero. Il giovane edile Vespasiano che, reo di non aver fatto pulire adeguatamente le strade dalla spazzatura, viene coperto di fango dai soldati per ordine di Caio Cesare. Il proconsole Vespasiano che, durante un viaggio in Acaia, si addormenta e russa sonoramente mentre il divino imperatore Nerone canta, suscitando la sua furibonda rabbia e cadendo in pericolosa disgrazia. L’imperatore Vespasiano che, dietro ansiosa richiesta di un cieco, gli sputa negli occhi per fargli recuperare la vista, secondo una prescrizione ricevuta in sogno da Serapide.
Ma anche il rude e valoroso soldato che, infuriato, scaccia dalla propria augusta presenza un giovane prefetto, colpevole di prestare più attenzione ai profumi che al rispetto della disciplina: «Avrei preferito che puzzassi di aglio», si diceva gli avesse gridato, revocandogli il grado… Giunio si scoprì a ridacchiare, tanto da doversi portare una mano davanti alla bocca.
Furono accompagnati fuori della residenza dai cinque senatori, uno dei quali, quando furono di nuovo per strada, si accostò senza ambagi al legato. «Publio Marzio», disse, «sono il senatore anziano Menenio. Consenti che ti esprima la mia gratitudine per quanto hai fatto.» Quindi, ascoltate a stento poche parole di ringraziamento dell’altro, riprese immediatamente con uno strano lucore negli occhi: «Ai miei orecchi è giunta la voce che vorresti rientrare a Roma per dedicarti alla vita politica. È vero?»
Marzio sembrò disorientato dall’immediatezza della domanda; gli erano con ogni probabilità tornate alla mente le parole di Cesare: «La fama viaggia più veloce del vento, precedendo spesso gli avvenimenti».
«Niente è ancora deciso», rispose finalmente, «ma non ti nascondo che mi farebbe piacere poter essere di nuovo utile alla comunità.»
«Sappi, nobile generale», replicò il senatore, «che nel consesso che presiedo ci sarà sempre posto per persone del tuo valore.» Quindi alzò il braccio destro in segno di saluto e si allontanò rapido come era arrivato, accompagnato dai colleghi togati. I tentacoli della politica cominciavano evidentemente a tendersi prima ancora che l’eroe di tante battaglie combattute in nome dell’impero si fosse affacciato sul suo insidioso percorso.
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