Il capo delle guardie, costretto alla remissività di fronte a una tra le più alte personalità dell’impero ma anche convinto della nobiltà della missione della giovane vestale, non oppose resistenza.
Clelia fu fatta entrare in una stanza buia e maleodorante, dove venne pregata di attendere che il prigioniero venisse prelevato dalle segrete e condotto lì. Nell’attesa si guardò intorno, non riuscendo a immaginare in che stato dovessero versare quelle segrete, se il fetido, buio locale in cui si trovava era la stanza di accoglienza.
La porta si spalancò e una guardia spinse dentro il vecchio, richiudendo immediatamente l’uscio. Valeriano era di una magrezza spaventevole, con la barba e i capelli incolti, la pelle dei polsi e delle caviglie ridotta a un’unica piaga sanguinante nei punti dove stringevano le catene. Ma gli occhi erano tuttora pieni della luce, della fierezza e imperturbabilità che Clelia portava impresse nella memoria.
La giovane allungò una mano e sfiorò il volto martoriato, senza dire una sola parola. Gli occhi del vecchio si riempirono di lacrime, le sue braccia si tesero.
«Questa è la carità che ha predicato Cristo», disse. «Questo è l’amore di cui spesso non riusciamo a capire la vera natura. Ho pregato a lungo per te, vestale, perché nei tuoi occhi ho visto l’innocenza, l’amore e la misericordia propri del Gesù di Nazareth.»
«Ti ho pensato», rispose lei, «ti ho pensato molto, Valeriano, ogni volta che cadevo in preda a sconforto e desolazione. Ho pensato ai tuoi occhi fieri, al tuo Dio che insegna l’amore tra gli uomini, al tuo sacrificio. E ogni volta questo è bastato perché la nebbia che avevo nell’anima si diradasse come per incanto.»
Incerto, non osando toccarla con le dita sudicie e torte dai ferri, il vecchio le sfiorò il viso con grande tenerezza, replicando: «Dio saprà ricompensare il tuo operato, giovane donna. Non ti chiedo di abbandonare la strada che hai scelto o ti è stata imposta: diverresti immediatamente vittima delle inesorabili leggi delle tue divinità. Ma, qualsiasi cosa accada, promettimi che agirai sempre per il bene e nel rispetto del prossimo».
«Te lo giuro, uomo di fede.»
Proprio in quel momento la guardia bussò alla porta; il tempo concesso era volato. Quando il vecchio fu sgarbatamente allontanato da lei, Clelia ebbe la sensazione che le venisse strappata una parte del cuore.
Roma imperiale. Caserma dei pretoriani.
Anno 830 dalla Fondazione.
[77 d.C. (N.D.T.)]
Giunio venne immediatamente trascinato in una cella, senza che nessuno si degnasse di notificargli di quali reati fosse accusato. Si aggirava nell’angusto e buio sudiciume delle quattro mura come un leone in gabbia. Il senso di impotenza, l’essere all’oscuro delle imputazioni e la convinzione, comunque, della sua innocenza avrebbero potuto farlo impazzire.
Dopo tre giorni di isolamento e digiuno, venne finalmente prelevato e, sempre in catene, condotto davanti al magistrato. Il viso arcigno del difensore della legge si accompagnava con la durezza e intransigenza dei suoi toni. Formulate le domande tese ad accertare l’identità dell’uomo portato al suo cospetto, rimosse dal tavolo un drappo di stoffa.
Le Pietre della Luna apparvero con i loro riflessi d’oro rossastro. Sebbene stremato, Giunio non riuscì a trattenere un sorriso nel rivedere le familiari figure: sapeva che non potevano rimanere a lungo lontane da lui. Aveva sempre avuto la certezza che un giorno o l’altro le avrebbe riavute lì, davanti a sé.
«Conosci queste statue, tribuno?» chiese il magistrato con un grave tono inquisitorio che lo fece trasalire. Che cosa stava succedendo? Che cosa si voleva da lui?
«Certo che riconosco le Pietre della Luna», rispose prontamente. «Fanno parte dei beni della mia famiglia da tempi remoti, forse ancora da prima che Enea sbarcasse sugli arenili di Lavinio».
«Tu menti, Giunio!» tuonò il magistrato. «Questi ori fanno sì parte di un tesoro, ma di quello del popolo di Roma. Ancora non sappiamo come tu abbia potuto fare, ma ti sei introdotto nelle stanze dell’Erario e hai sottratto ai romani il loro oro. È un reato grave, tribuno, punibile con la morte!»
Giunio cercò di respirare lentamente, di vincere il tremito che sentiva in tutte le membra, effetto di prostrazione, fame e sete. Era comunque più tranquillo. Si erse in tutta la sua statura di combattente. «Ci sono diversi testimoni», rispose, «che possono confermare che quelle statue le ho ricevute in dono pochi giorni or sono da mio padre, nella città di Luna, dopo che erano state custodite per secoli dai miei avi.»
«Questi testimoni saranno ascoltati al processo, che decreto sia tenuto nella piazza del Foro, al cospetto del popolo di Roma», concluse sprezzante il giudice, facendo bruscamente cenno alle guardie di portare via il prigioniero.
Giunio rimase chiuso nella cella della caserma dei pretoriani un tempo che il buio non gli consentì di calcolare con precisione: il corpo, abituato alla disciplina militare, gli permise tuttavia, in base al ritmo di veglia e sonno e allo scarso e fetido cibo che gli veniva portato, di valutarlo in una decina di giorni. Un mattino venne finalmente trascinato in catene all’appuntamento con la giustizia. Dopo tanto buio, la luce abbagliante non gli permetteva di vedere niente. Le gambe, anchilosate dalla lunga immobilità a cui le avevano costrette i ceppi, stentavano a muoversi. Procedeva meccanicamente, con gli occhi semichiusi, sentendo sulla schiena i colpi dei suoi custodi che lo pungolavano come se fosse un animale.
Quando finalmente riuscì a vincere il dolore e a socchiudere gli occhi brucianti, vide che la piazza del Foro era gremita di folla: per i cittadini romani, avidi di giochi crudeli e di intrighi, il processo pubblico a un tribuno militare accusato di furto ai danni dell’impero era uno spettacolo da non perdere. Sulla tribuna dei rostrati era schierato il consiglio dei giudici nella veste dell’alto rango: l’imputato fu spinto in catene davanti al loro consesso.
Giunio vide il volto di Marzio, pallido, sconvolto, spuntare tra le teste delle prime file. Lo vide scuotere la testa con rabbia e rassegnazione. Capì quanto profonda e astutamente congegnata fosse la macchinazione.
Lo stesso giudice che lo aveva interrogato dichiarò aperta l’udienza e, con voce profonda e squillante, simile a quella degli attori tragici, comandò: «Sia sentito il sacro custode dell’Erario».
La lunga toga bianca ornata di porpora di un senatore fece sentire il suo fruscio nel silenzio assoluto, carico di aspettative, del pubblico. Menenio andò a sistemarsi al centro della tribuna e, rivolgendosi al consesso dei giudici, ma in modo da poter essere udito da tutta la piazza, dichiarò: «Ho portato con me l’inventario del sacro tesoro dai tempi del divino Augusto». E, così detto, indicò con un dito simile a un artiglio una moltitudine di rotoli ordinatamente disposti in una scaffalatura mobile in legno. «E da allora», continuò in tono grave, dardeggiando sguardi di fuoco sul pubblico, «da quei tempi gloriosi e remoti, che le tre stele in oro raffiguranti le fasi della luna fanno parte del tesoro di Roma.»
La celebre eloquenza del senatore anziano aveva affinato negli anni tutti gli artifici oratori necessari per fare presa sulla gente assiepata, per inchiodare a sé l’attenzione degli ascoltatori. Per quanto conoscesse alla perfezione il proprio diritto e sapesse benissimo che tutto ciò non poteva essere vero, Giunio non poté trattenere un fremito di angoscia, che lo scosse in tutto il corpo. Aveva la certezza che quelle statue appartenevano ai suoi avi fin dalla notte dei tempi, eccettuate le poche volte che erano state sottratte, per essere tuttavia recuperate in modi arcani.
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