Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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Era prostrato. La notte insonne e la tensione, unite al profondo sconforto per la perdita delle Pietre della Luna — cimelio tanto prezioso per la sua famiglia, che glielo aveva affidato -, pesavano sul suo fisico più di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

Per quanto girasse, scrutasse e interrogasse, nessuno sembrava aver incontrato gli assalitori. Sconsolato, stava per abbandonare le ricerche, quando la sua attenzione venne richiamata da due uomini in vesti dimesse, seduti a un tavolo appartato in una taverna sgangherata.

Due volti alla cui vista sentì il sangue montare alla testa e le gambe, suo malgrado, piegarsi. Uno di essi era il senatore Menenio. Ascoltava con i crudeli lineamenti da falco torti in un’espressione torbidamente soddisfatta. Quanto all’altro, che parlava animatamente, non avrebbe mai potuto non riconoscerlo: era Sestilio.

Giunio si nascose dietro lo spigolo scrostato della porta e rimase lì qualche istante, cercando di recuperare il fiato e la capacità di riflettere. Che cosa ci facevano in quel luogo, chiaramente mascherati sotto vesti dimesse procurate chissà dove e da chi, quei due ambigui individui?

Impostesi calma e cautela, si dileguò in silenzio prima che i due si accorgessero di lui. Come comportarsi? Decise che per il momento era prematuro rendere partecipe Marzio della sua singolare scoperta: quell’incontro poteva essere frutto del caso, assolutamente nulla lo legittimava a esternare i suoi sospetti.

Rientrato alla villa, apprese che il generale, prima di mettere l’imperatore al corrente dell’accaduto, aveva deciso di aspettare il rientro degli inseguitori, ma che poi, caduta anche l’ultimissima speranza di recuperare i quattro carri trafugati, aveva deciso di recarsi immediatamente a Roma per chiedere udienza a Vespasiano.

L’imperatore lo ricevette senza farlo attendere. Sicuramente era già stato informato dell’accaduto, ma, sentendosi raccontare i dettagli dell’imboscata, finse ugualmente stupore.

«Così vorresti dire», tuonò, «che più della metà di un bottino appartenente al popolo di Roma ti è stato sottratto per la negligenza tua e dei tuoi uomini?» Sulla sala calò un silenzio minaccioso. «Non posso accettarlo», proseguì Vespasiano. «Dispongo pertanto che il trionfo che avrebbe dovuto celebrare le tue gesta venga annullato, anche se la mia magnanimità mi impone di tenere ugualmente conto delle tue valorose imprese. Ritieniti graziato dall’accusa di alto tradimento e inchinati alla mia persona, ringraziando gli dei che mi hanno ispirato nel farti salva la vita.»

Non occorreva altro. Dopo tanti anni passati al servizio di Roma, dopo interminabili battaglie e sacrifici inenarrabili, sotto sole, pioggia, tempesta e neve, dopo avere visto tanto sangue e avere versato in più occasioni anche il proprio, il legato Marzio era un uomo finito agli occhi di ogni romano. L’umiliazione che provava lo spinse a non tentare nemmeno una difesa. S’inchinò meccanicamente e abbandonò la stanza.

Quando Giunio tornò alla villa, dopo aver effettuato un ulteriore, ostinato giro di indagini infruttuose al porto, né Marzio né Sestilio, che non appena informato della partenza del generale per Roma si era precipitato a seguirlo, erano ancora rientrati.

Imponendosi di superare ogni scrupolo, si insinuò di nascosto nella stanza di Sestilio e rovistò con metodo tra le sue cose. Ma che cosa cercava? Che cosa avrebbe potuto trovare per dare corpo alle sue supposizioni? Perché di supposizioni si trattava, e niente di più, si ripeté più volte; probabilmente generate dalla scarsa simpatia che Sestilio manifestava apertamente per lui, dal suo tono di sufficienza, persino dal suo elegante latino di cittadino di Roma, tanto diverso dal suo, greve di inflessioni provinciali.

Scuotendo la testa, scontento di se stesso, decise di smettere con quella follia. Doveva mettere da parte ogni dubbio, ogni dissapore personale; di Sestilio doveva fare un alleato nelle ricerche. Stava per mettere la mano sulla pesante maniglia della porta, quando sulla parete opposta notò una cassapanca in cui, nella concitazione del momento, non aveva guardato. Ancora una volta mise da parte gli scrupoli e l’aprì. Come aveva ispezionato tutta la camera, poteva ispezionare anche quella.

Nella cassapanca aperta, come prevedibile, non vide che gli indumenti di Sestilio. Ma sul fondo, in un angolo, un lieve bagliore metallico colse il suo sguardo. Infilò la mano tra il legno e gli indumenti. Quando la ritirò, stringeva un piccolo disco di bronzo. Portatolo accanto a una finestra, lo osservò attentamente. L’effigie a rilievo che recava era una copia identica del sigillo che si vedeva sull’anello di Marzio. Che cosa poteva significare? A quale uso era destinato quel dischetto di bronzo? A ingannare quali occhi? E, se di eventuali inganni si poteva parlare, anche il mistero dell’oro mancante avrebbe forse potuto cominciare a mostrare contorni più definiti. E Sestilio poteva non essere estraneo ai due sanguinari attacchi subiti dal convoglio. Possibile?

Inutile vivere di dubbi. Decise che, appena fosse riuscito a rimanere solo con Marzio, lo avrebbe informato delle sue scoperte, fossero o non fossero soltanto supposizioni.

Rientrato sul far della sera, il generale gli raccontò l’esito dell’incontro con l’imperatore. Nessuno avrebbe potuto riconoscere in lui lo spavaldo condottiero, il vincitore di tante battaglie sui limiti estremi dell’impero. La sua proverbiale forza indomita, la saggezza che lo aveva fatto amare da migliaia di soldati sembravano dissolte.

Purtroppo, però, fino al momento di ritirarsi ciascuno nelle proprie stanze, Sestilio non li abbandonò nemmeno per un istante, sicché Giunio non ebbe modo di esternare i suoi sospetti. D’altra parte, gli sembrava veramente poco opportuno, per non dire inutile, dare ulteriori preoccupazioni a Marzio proprio quella sera. «Domani», pensò, «avrò tutto il tempo di restare solo con lui.»

All’alba, invece, fu svegliato di soprassalto da uno scalpiccio di cavalli al galoppo. Uscito dalla stanza, si affacciò al loggiato che dava sul giardino. Due pretoriani, accompagnati da dieci guardie imperiali, stavano varcando la cinta. Scese al piano inferiore per riceverli, accorgendosi che anche Marzio, inquietato dalla visita, si era a sua volta precipitato in giardino.

«Chi di voi è il tribuno Giunio?» chiese uno dei pretoriani.

Giunio si fece avanti e quello continuò con voce stentorea: «Abbiamo l’ordine dell’imperatore di condurti a Roma».

Cercò di chiedere spiegazioni, di conoscere i motivi della convocazione, ma il pretoriano si strinse sprezzantemente nelle spalle: «Non sei convocato, tribuno, sei in arresto».

Roma imperiale. Atrium Vestae.

La soppressione della solenne cerimonia che avrebbe dovuto celebrare il trionfo di Marzio offrì a Clelia uno spiraglio di libertà. Chiese e ottenne di potersi recare in visita alla propria famiglia, che non vedeva da lungo tempo.

Velata, irriconoscibile, si sarebbe mossa senza la scorta dei littori, così come era d’uso nelle rare occasioni non ufficiali che connotavano la vita di una sacerdotessa. Giunta in prossimità dell’ingresso del carcere, tuttavia, lo imboccò senza esitazione, scostando brevemente il velo per far riconoscere l’abito.

Le guardie rimasero attonite: non soltanto una donna, ma addirittura una divina sacerdotessa chiedeva di parlare con un prigioniero. Un cristiano, per di più.

«Questore», disse la giovane, rivolgendosi al più alto in grado e sfoderando come meglio poteva il tono imperativo che era prerogativa del suo stato sacrale, «la legge e gli dei mi conferiscono il privilegio di cercare di riportare quell’uomo sulla giusta via, di fargli abbandonare le sue stolte e criminali convinzioni per tornare ai nostri diletti dei e in particolare a Vesta.»

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