Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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«Si sostiene che siano dotate di poteri arcani e straordinari, e che sappiano salvaguardare il focolare presso cui sono conservate. In effetti, nel corso del tempo sono state sottratte diverse volte alla mia famiglia, ma, misteriosamente, sono sempre tornate di nostra proprietà.»

«Speriamo possano preservare anche noi dalla sventura», commentò a mezza voce Marzio. E le sue parole manifestarono ancora una volta come fosse importante il legame che si era venuto a formare tra lui e il giovane tribuno.

Sestilio mantenne un silenzio accigliato. Era roso dall’invidia, non poteva scopertamente sopportare il fatto che a lui, patrizio romano di antica stirpe, venisse preferito un qualsiasi provinciale di origini plebee.

Il convoglio percorreva circa novanta miglia al giorno, accampandosi per la notte e riprendendo il cammino alle prime luci dell’alba.

Secondo Giunio, quattro giorni di marcia sarebbero dovuti bastare per raggiungere la grande città imperiale, ma, quando Marzio gli rese noto il suo programma di viaggio, dovette correggere le proprie previsioni. «Faremo sosta presso la mia tenuta di famiglia a Ostia», disse una sera il legato, «in modo che uomini e animali possano riposare un paio di giorni e presentarsi in buon aspetto all’accoglienza trionfale. Nel frattempo tu, Giunio, compilerai un inventario accurato del tesoro. Insieme a Sestilio mi accompagnerai poi dall’imperatore, a cui comunicheremo il momento dell’arrivo del convoglio e la precisa consistenza del bottino, concordando con la sua augusta persona le modalità dell’ingresso in Roma.»

«Di solito», considerò il giovane, «è l’intera legione a marciare in parata nelle sfilate trionfali. È dunque un grande privilegio quello che ti viene concesso, Marzio.»

«È vero», riconobbe il generale, «sembra che si voglia tributare l’onore prevalentemente alla mia persona, più che all’operato complessivo delle nostre armate. Presumo che tutto questo rientri in un unico disegno, teso a ricomporre i dissidi che dividono la famiglia dei Flavii e altre legate ai Vitellii come la mia. Cercherò comunque di approfittare dell’opportunità per gettare le basi della mia candidatura al senato.»

Sestilio ascoltava sempre con la massima attenzione, anche se per converso sembrava calibrare con estrema cautela e precisione le parole dei suoi interventi. «A mio umile giudizio, comandante», disse, «è opportuno che tu proceda per gradi. Tieni nel giusto conto il fatto che, qualora la tua candidatura al senato dovesse fallire, il tuo avvenire politico sarebbe segnato, o comunque limitato in partenza.»

«Discendo comunque da una famiglia patrizia», replicò Marzio, «e i miei successi militari, ulteriormente amplificati dall’eco del trionfo, dovrebbero senz’altro garantirmi un seggio nella Curia.»

«In politica», riprese Sestilio con i suoi soliti modi di argomentare, insinuanti ma non per questo meno convincenti, «sai benissimo che niente è scontato. Personalmente ti consiglierei di frenare l’irruenza propria di noi militari e di agire con la massima cautela. A mio modo di vedere, una tua candidatura, preparata e rafforzata da un breve periodo di esperienza politica con risultati positivi, potrebbe essere più sicura.»

L’espressione di Marzio si fece pensosa; le argomentazioni del suo consigliere erano in buona misura condivisibili. Soltanto in buona misura , però. «Non posso certamente ricominciare tutto da capo e salire la scala degli onori partendo da edile o da questore per arrivare al senato soltanto tra dieci o venti anni, ti pare?» obiettò.

«Non era questo che pensavo, signore», precisò Sestilio. «Non intendo certamente sminuire l’eminenza della tua persona, ma non credi che essere uno dei duoviri di Ostia ti conferirebbe un credito più ampio presso la Curia, a maggior ragione avendo alle spalle una fortunata ed eroica carriera militare?»

Le sue parole stavano facendo breccia; i cenni di assenso di Marzio si andavano facendo sempre più frequenti. Quasi se ne sentisse spronato, il giovane patrizio incalzò: «La tua gens è originaria di quella città, vi ha diversi possedimenti e innumerevoli clientes. La carica di duovir dura soltanto un anno, e potrebbe comunque costituire un’esperienza utile. Ostia è una città importante, il fulcro dei commerci di Roma, il maggiore porto dell’impero, sicché, a mio modesto giudizio, potrebbe rappresentare un giusto piedistallo da cui mettere in luce le tue qualità politiche».

Così detto, Sestilio osservò di sottecchi Marzio: sapeva che le sue parole si sarebbero fatte strada nel suo spirito, arrivando a segno. A Giunio, nella sua limitata esperienza, sembrava che avessero una logica perfetta. Un anno, pensò, non è poi un periodo così lungo.

Roma imperiale. Atrium Vestae. Anno 828 dalla Fondazione.

[75 d.C. (N.D.T.)]

Gli anni erano trascorsi lentissimi, tediosi. La vita delle vestali era di una monotonia soffocante: la cura diuturna del fuoco sacro, le preghiere nel tempio; ogni mese di giugno la meticolosa organizzazione delle Vestalia, le festività della Dea. Otto giorni durante i quali corso il penus , la parte più interna del tempio, veniva sottoposto a solenne pulitura. Le immondizie venivano portate via per essere gettate nelle acque del Tevere, l’edificio veniva purificato con acqua sorgiva, la macina della mola e l’asino che la manovrava venivano ornati con corone. Finché, alla metà del mese, non arrivava il giorno contrassegnato dai calendari con la sigla QSDF, ovvero Quando Stercum Delatum Fas : lo «sterco», il sudiciume, era stato rimosso; in tutta la città, come nel tempio di Vesta, riprendevano le attività normali.

Tutto ciò inframmezzato — e via via più di frequente con il crescere di Clelia e Gaia — dal dovere di partecipare a una serie di manifestazioni pubbliche, dalle cerimonie solenni ai cruenti giochi del Circo. Ma costantemente sotto lo sguardo arcigno della Vestale Massima, sempre pronta a richiamare con durezza all’ordine le giovani sacerdotesse.

Clelia, ormai diciassettenne, sembrava non sapersi adattare a quel genere di reclusione; le capitava spesso di lasciar vagare la mente in confusi sogni di libertà. Le rare volte che ne aveva occasione, osservava con un doloroso senso di invidia le coetanee intente al complicato gioco dell’adolescenza, fatto di passioncelle e curiosità, per quanto futili e frivole.

«Che strano», rifletteva tuttavia, «magari lo stesso sentimento lo provano loro nei miei confronti, sacra sacerdotessa di Vesta, tutta presa da gravi cure.»

Singolarmente, nei momenti di più profondo sconforto, quando le sembrava impossibile continuare in quella finzione ma non osava confidare le pene del suo spirito nemmeno a Gaia, l’unica cosa che sembrava poterla consolare era il ricordo degli occhi del vecchio cristiano, così pieni di luce e di gratitudine.

Pensava con quanto coraggio quell’uomo era pronto ad affrontare la morte per il suo dio e, per contro, alle difficoltà che incontrava lei nel vivere una vita vissuta sì nel nome di una divinità, ma ricca di privilegi.

Dove trovavano origine, su quale misteriosa forza si basavano la tersa luminosità dello sguardo di quel vecchio, l’evidente incrollabilità della sua convinzione?

Fu Gaia, un giorno, a confidarle: «Ho saputo da un edile, mio cugino, che quel vecchio Valeriano è ancora chiuso nelle segrete delle carceri, dove, contro ogni logica, sopravvive ad angustie indescrivibili, capaci di uccidere uomini ben più gagliardi e forti di lui».

Clelia fece finta di non prestare grande attenzione alle parole, ma si sentì riempire di un’emozione tumultuosa e giurò a se stessa che avrebbe cercato in ogni modo di incontrare ancora una volta il vecchio. Costasse quel che costasse. Doveva sapere. Capire.

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