Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Se io sono il figlio del Demonio, tu ne sei il padre. Non ti accorgi che nelle mie vene scorre il tuo stesso sangue?» mormorò Adil a bassa voce per non farsi intendere da nessuno.

«Avete udito la lingua di serpente di Satana?» chiese Campagnola rivolto al vescovo e agli altri due frati. «Il diavolo ha confessato di essere il frutto del peccato di mia figlia! Diavolo menzognero e impostore! È lui che ha ucciso il mio consigliere e adesso sta cercando di far ricadere la colpa su di me. Vade retro, Satana!» disse Campagnola.

«Taci!» disse Adil, e colpì con l’impugnatura della spada la base del collo del veneziano: le guardie non dovevano essere messe in allarme.

Campagnola perse i sensi, mentre Adil continuava rivolto al vescovo e ai due frati: «Presto, prepariamoci, dobbiamo uscire da qui al più presto possibile».

I due frati lo stavano osservando attoniti, mentre il vescovo, estratta la croce, tracciava dei gesti di benedizione e sibilava: «Vade retro, Satana».

«Non vi rendete conto che vi ho appena salvato la vita, Pannonio? Quel veleno era destinato a voi.» Adil stava cercando di convincere il prelato quando si accorse di un rumore alle proprie spalle.

Campagnola, con un guizzo imprevedibile in una persona anziana e fino a un attimo prima sdraiata a terra priva di sensi, si era impossessato del pugnale di uno dei suoi complici e cercava di assalire Adil alle spalle.

«Muori per mia mano, come è morta tua madre!» gridò il veneziano, con un’espressione simile a quella di una tigre inferocita.

La katana roteò nell’aria, con un sibilo che aveva il suono della morte.

L’altra mano di Adil si strinse sull’impugnatura alla fine della rotazione, per imprimere maggior forza e precisione al colpo.

Campagnola si fermò a mezz’aria. Il ghigno da fiera si trasformò in una smorfia di dolore e l’uomo cadde a terra, il corpo quasi diviso in due tronconi dai quali fuoriuscivano fiotti di sangue.

«Adesso voi farete quello che vi dico, senza fiatare», disse Adil rivolto ai tre uomini di chiesa.

Risistemò la spada sotto la tunica, facendovi scivolare anche il piccolo Po-Sin.

«Faremo un gioco, Po-Sin. Tu dovrai camminare nascosto all’interno del mio abito e nessuno dovrà scoprirti», disse Adil prima di coprirlo con la sua veste. «Quanto a voi, invece, al primo scherzo vi farò assaggiare il ferro che arma la mano di un infedele.»

I quattro uomini uscirono nel corridoio. Le guardie li videro mentre fingevano di rivolgere frasi di commiato a coloro che credevano ancora nella stanza. Le sentinelle salutarono il vescovo e i tre frati con deferenza. Pannonio benediva col segno della croce.

Pochi passi e sarebbero stati fuori. L’ultimo ostacolo era rappresentato dal corpo di guardia ma, mentre lo superavano, Po-Sin, che avanzava tra le gambe di Adil, inciampò sul ciottolato sconnesso.

Prima che le guardie si riprendessero dallo stupore, Adil aveva preso in braccio il bambino che era sbucato come per miracolo tra le sue sottane e si era lanciato lungo le calli affollate.

Il mercato era in pieno svolgimento. Le paratie in legno del ponte levatoio di Rialto erano abbassate: nessuna imbarcazione alta di bordo o dotata di alberi poteva transitare per il canale interrompendo lo svolgimento di vendite e acquisti.

La fuga tra la folla che si accalcava tra i banchi era riuscita a dare a Adil un certo vantaggio. Ma il giovane sapeva che, appena fuori dalla ressa, gli inseguitori gli sarebbero stati addosso e Po-Sin in braccio costituiva un notevole impedimento all’agilità dei suoi movimenti.

«Presto, Adil, per di qua», si sentì chiamare dal canale sottostante.

Si sporse e vide una chiatta con sopra due uomini. La mole di Wu in piedi sulla prora era inconfondibile.

Nascosto dietro a un banco del mercato, Adil sporse il bambino fuori dal parapetto e, senza alcuna esitazione, dopo aver calcolato rapidamente la traiettoria, lo lasciò cadere: Po-Sin volteggiò nell’aria come una bambola di pezza, quindi le mani di suo padre lo afferrarono al volo.

Fu quindi il turno di Adil, che si gettò nel vuoto atterrando sul giardinetto di poppa dell’imbarcazione. Humarawa lo accolse con un sorriso.

«Non avrai per caso creduto che ti avessimo abbandonato?» disse l’orientale calcandosi ancor più il cappello sugli occhi. Nel frattempo Wu nascondeva i fuggitivi sotto a delle ceste colme di frutta e verdura.

Dal Canal Grande, i due orientali si godettero la scena delle milizie del Consiglio che vagavano smarrite tra i banchi affollati. Nessuno aveva notato un uomo vestito da benedettino con un bambino in braccio. Del resto, anche se qualcuno lo avesse visto non l’avrebbe mai rivelato, dato l’odio che i cittadini veneziani nutrivano nei confronti del Consiglio dei Dieci e dei loro soldati. Soltanto i delatori sembravano far ricorso volentieri all’aiuto dell’organo che avrebbe dovuto tutelare la sicurezza dei cittadini. La politica del terrore era stata, per anni, l’impronta che Campagnola aveva voluto imprimere al consesso di cui faceva parte.

Adil conosceva bene il sapore della fuga. Quanto a Humarawa e Wu, per loro era quasi normale dover abbandonare in maniera precipitosa dimore ed effetti personali: sembrava che una vita serena fosse un sogno irrealizzabile per quel piccolo gruppo di persone.

Rhoda non ebbe neppure il tempo di riabbracciare suo figlio, che il gruppo si mise in viaggio su di un carro trainato da alcuni cavalli: il vescovo avrebbe sicuramente denunciato Adil alle autorità e quindi dovevano muoversi subito, se non volevano essere arrestati.

Si diressero a sud, lungo le vie che conducevano verso il mar Nero: Humarawa aveva deciso che il modo migliore per far perdere le loro tracce sarebbe stato quello di imbarcarsi a bordo di una delle tante navi che lo navigavano.

Il viaggio durava ormai da molti giorni, avevano percorso strade deserte, costeggiate da montagne inospitali o da intricate foreste, e i viveri cominciavano a scarseggiare.

«Ho fame, mamma», disse Dewei seduto sul cassone del carro.

«Anch’io», gli fece eco il gemello.

«Silenzio, bambini!» li zittì Rhoda con voce stanca: i morsi della fame si stavano facendo sentire per tutti.

Adil arrestò il suo cavallo. «Andate avanti: proverò a cacciare nella foresta e spero di raggiungervi presto con un ricco bottino.»

Il cervo stava brucando gli arbusti di un cespuglio. Il sesto senso del meraviglioso animale lo teneva in costante stato di allerta: era sufficiente il minimo rumore per fargli drizzare le orecchie e predisporlo alla fuga. Ma in quel momento sembrava tranquillo e, abbassate le corna dal colore bruno, si dedicava al suo pasto.

Adil incoccò la freccia, quindi tese la corda dello yumi. Dal nascondiglio nel quale si era appostato, aveva seguito la preda. Anni di allenamenti al fianco di maestri severi come Humarawa e Wu avevano fatto di lui un arciere infallibile. Le dita lasciarono la freccia alla sua irrefrenabile corsa, accompagnata da un sibilo leggero.

Il cervo scartò di lato e venne ferito, invece che al cuore, a una zampa. L’animale compì pochi incerti passi, quindi si accasciò.

Adil tese di nuovo l’arco: era inutile e crudele farlo soffrire.

Ma in quel momento accadde qualcosa di inspiegabile: un’altra freccia, che proveniva dalla direzione opposta a quella del giovane arciere, trafisse il cervo all’altezza del collo.

Adil uscì guardingo dal suo nascondiglio, pronto a difendersi.

Il misterioso cacciatore gli si parò davanti all’improvviso. Dietro di lui comparvero dal nulla tre uomini a cavallo.

«Tu sai che cacciare su queste mie terre senza un regolare permesso è un grave reato che può essere punito con la morte?» disse il nuovo venuto.

«Scusatemi, signore», rispose Adil tenendo gli occhi bassi, «non sapevo che questa foresta vi appartenesse e con essa la selvaggina che vi pascola. Vi prego di perdonarmi: sono state la fame e la preoccupazione per la mia famiglia che mi hanno spinto a cacciare in questa regione.»

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