Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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Alberto Sciarra della Volta strinse la pistola nel pugno, prima di sfondare la porta della stanza con un calcio. Kimberly lo seguiva, stringendo nella mano una piccola Dillinger 6.35. L’uomo era seduto allo scrittoio: con ogni probabilità stava preparando un nuovo messaggio per il nemico.

«Rocco, alzatevi!» disse Sciarra con voce stentorea.

«Cosa succede, signor colonnello?» chiese Rocco stupito.

«Fatemi vedere che cosa stavate scrivendo, Rocco.»

«Una lettera alla mia famiglia, colonnello.»

«In tedesco?» chiese Kimber indicando il foglio che Rocco cercava freneticamente di nascondere. «Dove sono i piccioni?»

«Piccioni? Che cosa state dicendo?»

«Quando alcuni giorni fa sono entrato in questa stanza ho sentito il loro odore selvatico.»

La voce di Kimber giunse dal bagno. «Li ho trovati, Alberto. Qui ce n’è una coppia.»

Rocco si mosse fulmineo verso il bagno. Kimber venne colta di sorpresa, con la gabbia dei piccioni in mano, e Rocco non ebbe difficoltà a disarmarla. Quando Sciarra si affacciò alla porta del bagno, vide il suo attendente che abbracciava da tergo Kimber e le puntava la Dillinger alla testa.

«Adesso, da bravo, giù la pistola, colonnello, altrimenti faccio saltare il cervello alla vostra amica.»

Sciarra obbedì, mentre l’altro si impossessava anche della sua pistola e, tenendoli sotto tiro, si avvicinava alla porta.

«Sono il tenente Klaus Rossler. I miei nonni materni erano siciliani. Purtroppo non ho mai conosciuto mio padre: è morto quando ancora ero in fasce. In casa mia si sentiva spesso parlare in siciliano, una lingua che ho odiato da sempre. Al contrario, amo la nazione nella quale sono nato e che ho l’onore di servire.» Gli occhi dell’uomo erano freddi e determinati. L’agente tedesco era sicuramente disposto a uccidere, pur di portare a termine la sua missione.

«Quello che sto per fare è soltanto frutto di un rinvio di pochi giorni: la scorsa notte, nella valle di Rumm, credevo mi aveste visto mentre lanciavo il piccione col messaggio, e invece voi avevate pensato che stessi facendo esercizi ginnici. Una lama affilata dietro la mia schiena era pronta a tagliarvi la gola. Ma so bene che non mi conviene uccidervi. Voi potreste essermi utile per tirarmi fuori dai guai: al contrario la donna mi sarebbe solo di peso, dal momento che non riuscirebbe ad affrontare le lunghe cavalcate del deserto. A malincuore, signora…» Così dicendo il tenente Klaus Rossler puntò la canna della Dillinger alla tempia di Kimber.

A Salem, appena giunto in corridoio, ci volle un istante per capire quello che stava accadendo al di là della porta sfondata.

Caricò come un toro infuriato, con la testa abbassata tra le spalle.

Rossler esplose il colpo nell’istante in cui il mondo parve crollargli addosso da dietro. Istintivamente l’ufficiale tedesco lasciò la presa e, mentre cadeva, ebbe il tempo di puntare la pistola verso la nuova minaccia.

Salem era scivolato a terra, travolto dal suo stesso impeto, e ora lottava con l’uomo armato in un corpo a corpo furibondo. Il coltello dalla lama ricurva balenò nell’aria, abbattendosi poi sul torace della spia nello stesso istante in cui un secondo sparo risuonava nella stanza.

Sciarra si era mosso immediatamente, ma il suo intervento si sarebbe rivelato inutile: il tedesco e Salem si erano uccisi reciprocamente.

«Per fortuna che si trattava di un piccolo calibro», disse Kimber premendosi un fazzoletto contro la ferita superficiale. «Non so se la mia fronte avrebbe resistito al passaggio di un proiettile più grosso», quindi si accorse che per il loro salvatore non c’era più nulla da fare. «Dobbiamo la vita a questo arabo che si è sacrificato per noi.»

«Salem era un valoroso beduino», disse Sciarra, cingendola con un braccio, «un uomo del deserto. E il deserto insegna a non conoscere la paura.»

44

Venezia, 1357

«… e un Muqatil non conosce la paura…» La frase che era solito ripetere suo padre gli risuonava nelle orecchie, mentre Adil, col cappuccio del saio benedettino calato sugli occhi, oltrepassava il corpo di guardia del palazzo veneziano. Dietro le mura di quello stabile signorile nel centro cittadino si trovava la sede del Consiglio dei Dieci. A Venezia accadeva spesso che dei semplici sospettati venissero portati via dalle loro abitazioni: dopo aver varcato quella soglia, delle loro esistenze non si era più saputo nulla.

Al grande tavolo nella sala dal soffitto a cassettoni erano seduti il vescovo di Pécs, Campagnola e due membri del Consiglio a lui fedeli.

I tre monaci che il prelato aveva voluto sempre con lui erano appartati in un angolo. Di tanto in tanto uno di loro si alzava per prendere il cibo che i signori, nella loro benevolenza, gli concedevano.

Era stato mentre si avvicinava al tavolo che Adil si era accorto del tranello: Campagnola aveva aperto la parte superiore del sigillo del suo anello e stava versando una polvere chiara all’interno del calice destinato al vescovo di Pécs.

Fingendo un movimento maldestro, Adil aveva inciampato e il cibo che stava portando ai suoi compagni si era rovesciato sulla veste candida del vescovo. Nell’attimo di confusione che era seguito, Adil aveva rapidamente scambiato la coppa del prelato con quella del commensale alla sua sinistra.

Campagnola alzò la coppa e propose un brindisi, mentre di sottecchi si accertava che tutti bevessero.

Uno dei due consiglieri emise un suono gutturale, quindi un rivolo di bava schiumosa gli uscì dalla bocca. Poi il capo cadde pesantemente sul tavolo e l’uomo stramazzò avvelenato al posto di Pannonio.

Campagnola intuì immediatamente l’errore e tentò di porvi rimedio. «Una delle sue solite sbornie, eminenza. Il vino gli fa sempre quest’effetto.»

«Sarà anche l’effetto del vino, ma quell’uomo a me sembra morto avvelenato. Il bicchiere nel quale hai versato il veleno doveva essere quello del vescovo, Campagnola. La fortuna ha voluto che me ne accorgessi e che lo scambiassi», disse Adil.

La katana gli apparve come per miracolo tra le mani, estratta da sotto i drappeggi dell’abito.

I due monaci erano rimasti impietriti di fronte alla luce pericolosa che brillava negli occhi di quello che avevano sino ad allora creduto essere un confratello timido e silenzioso.

L’altro consigliere mise la mano sull’elsa, ma non ebbe nemmeno il tempo di estrarre la spada: il colpo inferto da Adil dall’alto verso il basso gli spaccò la testa in due.

«Tu?!» esclamò incredulo il veneziano. «Tu, il figlio di Satana, hai osato profanare anche questo palazzo. Come credi che riuscirai a fuggire da Venezia, questa volta?»

«Sarai tu a portarmi fuori di qui, se non vuoi fare la fine dei tuoi complici.» La lama tagliente della katana premette sulla carotide del veneziano. «Chiama uno dei tuoi sgherri e digli di portare qui il figlio di Wu.»

«Non lo farò», continuava a ripetere Campagnola, ma mano a mano che la lama aumentava la pressione, la sua arroganza scemava.

«Guardie», gridò il veneziano affacciandosi a una finestra che dava sulla corte interna, «portatemi il piccolo prigioniero.» In fondo la vita di un bastardo mezzosangue non valeva quella di un nobile di Venezia.

Le guardie nel cortile non immaginavano che il loro signore fosse sotto la minaccia di una spada.

Quando poco dopo un soldato bussò alla porta, Campagnola ordinò di fare entrare il bambino da solo. Negli occhi a mandorla di Po-Sin si leggeva il terrore, ma subito riconobbe Adil nel monaco che brandiva la spada dei samurai e, chiamandolo per nome, corse a rifugiarsi tra le sue gambe.

«Adesso tu ci porterai fuori da qui», ripeté Adil.

«Tu sei il figlio del Demonio. Sei foriero di morte e di terribili sventure…» Negli occhi del veneziano brillava la follia, mentre si rivolgeva a Adil.

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