Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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La bara si aprì con un sinistro scricchiolio e Béla Lugosi si alzò in piedi, vestito con il solito frac nero e la camicia candida, il volto incipriato per sottolineare il pallore cadaverico e gli occhi cerchiati di nerofumo. La mano al cui indice si trovava l’Anello dei Re era bene in vista e illuminata da un faro bianco.

Il Béla Lugosi Review era cominciato.

Minhea Petru era rimasto in disparte, seduto a un tavolo d’angolo. Ascoltava il narratore, nell’attesa trepidante che la bara si aprisse.

Quella messa in scena aveva qualcosa di nostalgico e di decadente: Béla Lugosi aveva ormai inesorabilmente imboccato il viale del tramonto. Era il 1953 e, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’attore non era riuscito a partecipare a più di una pellicola all’anno. E spesso con ruoli secondari. I tempi gloriosi in cui recitava contemporaneamente in diversi film e spettacoli erano un lontano ricordo.

Gli occhi di Minhea caddero sulla pagina di giornale che due suoi vicini di tavolo stavano guardando: era la stessa pagina che Petru portava sempre con sé. Béla Lugosi vi era ritratto nella sua classica posa vampiresca con le dita delle mani protese verso il volto di una ignara vittima. L’Anello dei Re splendeva all’indice del vampiro in procinto di aggredire.

Ciò che aveva fatto trasalire il rumeno era che nel ritaglio che l’uomo stava mostrando alla donna l’anello era stato cerchiato in rosso.

Ci vollero alcuni minuti prima che Petru li riconoscesse: si trattava dei coniugi Bàlaj, quelli che avevano fatto il viaggio verso gli Stati Uniti con Béla Blasko, circa trent’anni prima. Da loro Minhea aveva acquistato la fotografia in cui si intravedeva l’assistente di macchina sullo sfondo.

Era difficile che lo avessero riconosciuto e ciò lo tranquillizzò: dato quello che aveva intenzione di fare, era auspicabile che nessuno lo identificasse.

Minhea cercò di captare i loro discorsi. L’uomo si rivolgeva alla moglie in lingua magiara.

«Ceausescu ci sarà infinitamente grato se gli porteremo l’anello», stava dicendo Teofil.

Quella frase sconvolse i piani di Minhea: doveva agire subito, alla fine dello spettacolo.

«Le lettere che Minhea mi inviava erano ricche di descrizioni e di particolari», stava dicendo a Asher Breil il generale Sciarra. «Questo è il motivo per cui riesco a raccontare i fatti quasi li avessi vissuti personalmente.»

«E il suo resoconto è tanto nitido che anche a me sembra di viverli in prima persona. Vada avanti, generale, la prego.»

Lo spettacolo era finito da oltre un’ora. Il teatro era deserto: i frequentatori di Las Vegas considerano gli spettacoli teatrali, nelle sale adiacenti ai grandi casinò, alla stregua di un passatempo durante le soste tra un tavolo da gioco e l’altro. Una volta terminata la pièce , i giocatori ritornano a dedicarsi al gioco d’azzardo, dispensatore di fortuna o di rovina.

Minhea si incamminò lungo il corridoio dove si aprivano le porte dei camerini. Non c’era nessuno, né fan in attesa di chiedere un autografo, né fattorini che portavano mazzi di fiori, né giornalisti. Si fermò davanti a quello di Béla «Dracula» Lugosi. La mano si strinse attorno al calcio del revolver. Minhea aprì la porta ed entrò con la pistola puntata.

Béla Blasko giaceva sul divano in posizione supina. Un filo di bava scendeva al lato della bocca.

Per un attimo Minhea pensò che fosse morto, poi il torace si sollevò in un profondo respiro: Lugosi stava solo dormendo.

Minhea osservò la scatoletta d’argento sul tavolino di fianco al divano: si rese conto immediatamente che era stata la morfina a ridurre Blasko in uno stato molto vicino all’incoscienza.

«Questo mi facilita il compito», si disse Minhea afferrando l’anello con la mano destra.

Un’intensa emozione lo colse quando strinse l’Anello dei Re. Le immagini cominciarono a correre davanti ai suoi occhi come le sequenze di una pellicola. Rivide le epiche battaglie del Mediterraneo tra il Muqatil e Hito Humarawa. Rivide la città di Venezia invasa dalla peste. Rivide il volto della sua ava Celeste e quello arcigno di Campagnola. Rivide i fasti imperiali della Roma dei Cesari. Quante storie era capace di custodire dentro di sé quell’oggetto! Quante mani si erano attardate sui suoi rilievi! Anche quella di Dracula, del vero Dracula, non dell’usurpatore che, imbottito di morfina, stava adesso russando sonoramente davanti a lui.

Minhea tirò ancora più forte e l’anello si sfilò dal dito indice di Lugosi; lo infilò in tasca, quindi si girò e uscì nel corridoio.

Percorse alcuni metri prima di udire dei passi provenienti dalla direzione opposta alla sua. Aveva riconosciuto i coniugi Bàlaj che venivano verso il camerino di Lugosi: la donna aveva tra le mani un grande mazzo di fiori. Sapeva che era quasi impossibile che i due non l’avessero visto mentre si nascondeva in un altro camerino vuoto, ma sperava che non lo avessero riconosciuto.

Quando ebbe raggiunto la sua camera nell’hotel di Las Vegas, Minhea depose l’anello sullo scrittoio e rimase a rimirarlo, ancora incredulo, per una buona mezz’ora, poi prese carta e penna e si accinse a scrivere all’unico amico che avesse.

«La lettera», disse Sciarra estraendo dalla tasca un foglio di carta ingiallito dal tempo e cominciando a leggere, «si conclude con queste parole: ‘Adesso che la mia missione è compiuta, credo che mi fermerò qui negli States per qualche tempo: devo pur festeggiare il coronamento di un sogno che ormai si era trasformato in un’ossessione che mi ha accompagnato per tutta la vita. No, non aver paura, Alberto: niente più alcol. Sono stato assente troppo tempo dal mondo per bruciare in quel modo anche un solo secondo della vita che mi rimane. Tu e Kimber mi mancate’.»

Alberto Sciarra aveva ricevuto la lettera nove giorni dopo che era stata spedita. Il generale italiano l’aveva letta con trepidazione ma, a discapito delle parole di Minhea, non riusciva a sentirsi sollevato: aveva la sensazione che non tutto fosse finito e che una grave minaccia incombesse sul suo amico.

Era notte fonda quando, nella camera da letto di Kimberly e Alberto, era squillato il telefono. I tempi in cui Sciarra veniva svegliato di notte per problemi connessi al lavoro erano ormai lontani. Doveva essere successo qualche cosa di grave.

«Una chiamata da New York per lei, signore», aveva detto la voce di una centralinista.

«Sono Cesare, il vicedirettore dell’hotel Plaza di New York. Parlo con il generale Alberto Sciarra della Volta?»

«Sono io, Cesare, che cosa è successo?»

«Una terribile disgrazia, marchese Sciarra», disse sconvolto il dirigente dell’albergo newyorkese.

«Che cosa è successo?»

«Il signor principe… oh mio Dio, che cosa orribile… si è gettato dalla finestra della sua stanza poche ore fa. Un volo di otto piani. Non c’è stato nulla da fare.»

Alberto rimase ammutolito, con la sensazione che il suo cuore avesse cessato di battere. Ebbe solo la forza di chiedere: «Come è successo?»

«La polizia ha appena completato le indagini: sono certi si tratti di suicidio. Nella stanza sono state rinvenute molte bottiglie e alcuni degli abiti del principe Petru erano impregnati di liquore: per questo sono giunti alla conclusione che il signor principe, ubriaco, si sia lanciato nel vuoto.»

Pochi istanti più tardi Alberto riagganciava il ricevitore.

Kimberly gli cinse le spalle con un abbraccio: aveva capito che cosa era successo e non riusciva a trattenere le lacrime.

«Domani stesso partiremo per New York. Dobbiamo riportare Minhea in Europa e inoltre io voglio vederci più chiaro in questa storia, Kimber: ci sono alcune cose che non mi tornano.»

Sciarra benedisse i quattro motori Wright Cyclone che equipaggiavano il Lockheed Constellation della compagnia irlandese che li stava portando a New York: non avrebbe sopportato i tempi lunghi della navigazione, con l’angoscia che gli attanagliava lo stomaco.

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