Ramírez, come un attore in un film comico, compì un passo indietro sbarrando gli occhi di fronte a Lucena. Falcón usò il cellulare per chiamare Fernández, il quale gli comunicò che, nel pomeriggio, all'appartamento di Ruiz non aveva risposto nessuno.
«Oggi è fuori città», spiegò Lucena. «Mi ha accompagnato all'università e poi è andato a Huelva. Sta provando Bodas de sangre di Lorca.»
Nella stanza la corrente aveva cambiato direzione. La signora Jiménez scattò in piedi e, prima che qualcuno potesse intervenire, la sua mano venne a contatto duramente con un lato della testa di Lucena: non un ceffone, piuttosto un colpo secco.
« Hijo de puta! » gridò furiosa dalla porta.
Il sangue colò lungo la guancia di Lucena. La porta di casa sbatté. Tacchi a spillo colpirono il selciato.
«Non ci arrivo», disse Ramírez, più a suo agio ora che la donna aveva lasciato la stanza. «Perché la scopava se è un…»
Lucena recuperò un pacchetto di fazzoletti di carta, si asciugò la fronte.
«Può spiegarmelo?» insistette Ramírez. «Voglio dire, o si è una cosa o l'altra, no?»
«Devo proprio sopportare questo imbecille?» domandò Lucena a Falcón.
«Sì, a meno che non voglia passare molto tempo alla Jefatura.»
Lucena si alzò, infilò le mani in tasca, compì qualche passo nella stanza e si girò verso Ramírez, la debolezza dimostrata fino a quel momento sostituita da una disinvoltura aristocratica, vendicativa, della specie usata dai damerini quando venivano sfidati a duello.
«L'ho scopata perché mi ricordava mia madre», disse, Un'offesa calcolata che ottenne l'effetto desiderato di scioccare Ramírez, giudicato da Lucena chiaramente un individuo appartenente a una classe diversa dalla sua. L'Inspector veniva da una famiglia di lavoratori sivigliani conservatori e abitava con la moglie e due figlie in casa dei genitori. Sua madre era ancora in vita, stava con loro e alla morte, ormai imminente, del suocero avrebbero ospitato anche la sua vedova. Ramírez strinse i pugni. A lui nessuno poteva parlare così di una madre.
«Ora ce ne andiamo», annunciò Falcón, dando una strizzatina di avvertimento al bicipite gonfio di Ramírez.
«Voglio prendere… voglio prendere il numero di telefono dell'altro maricón », disse rauco Ramírez, e le parole gli si imbottigliarono in gola. Liberò il braccio dalla stretta di Falcón.
Lucena andò alla scrivania, scarabocchiò qualcosa di traverso su un foglio e lo porse a Falcón, che pilotò Ramírez fuori dalla stanza. All'esterno la calle Río de la Plata si muoveva lentamente come le acque su cui si affaccia Buenos Aires. La signora Jiménez aspettava in fondo alla via, la sua rabbia evidente sul viso illuminato dal sole. Ramírez era non meno furioso di lei. Falcón, tra i due, non era più l'investigatore, piuttosto una specie di assistente sociale.
«Chiami Fernández sul cellulare, senta se hanno trovato la ragazza», ordinò a Ramírez.
La porta di Lucena sbatté alle loro spalle. Falcón si diresse verso Consuelo Jiménez riflettendo: era quella la raffinata educazione di cui blateravi e che ti incantava tanto? Che cosa siamo? Dove siamo? Questa società senza più regole.
La donna stava piangendo, ma di rabbia e di umiliazione questa volta, digrignando i denti e battendo i piedi per terra. Falcón le si affiancò, le mani in tasca, annuendo, come se volesse dirle che era d'accordo con lei, ma pensando: così è il lavoro nella polizia, un momento si è sul punto di chiudere il caso e prepararsi per celebrare con una bevuta la soluzione del mistero, e un momento dopo eccoci di nuovo in strada a domandarci come abbiamo potuto essere così sciocchi.
«La riaccompagno a casa di sua sorella», le disse.
«Che cosa gli ho fatto?» domandò Consuelo Jiménez. «Che cosa gli ho mai fatto?»
«Niente», rispose Falcón.
«Che giornata!» esclamò lei, alzando lo sguardo al cielo perfetto, tutto serenità fin oltre la stratosfera. «Che giornata del cazzo!»
Fissò il fazzoletto di carta appallottolato, come un aruspice che potesse trovarvi spiegazione, chiarezza o futuro. Lo gettò nella cunetta della strada. Falcón la prese per un braccio e la indirizzò verso la macchina. Mentre la stava aiutando a salire Ramírez disse che era stata trovata la ragazza dell'Alameda: la stavano portando alla Jefatura sulla Blas Infante.
«Dica a Fernández di interrogare l'ultimo degli impiegati licenziati dalla signora Jiménez. Pérez dovrebbe lasciare la ragazza sulle spine finché non arriviamo. Voglio tutti i rapporti pronti alle quattro e mezzo, prima di incontrare il Juez Calderón alle cinque.»
Chiamò Marciano Ruiz sul cellulare e gli disse di tornare a Siviglia quella sera per una deposizione. Protesta di Ruiz seguita dalla minaccia da parte di Falcón di arrestare Lucena.
«Si è calmato?» domandò a Ramírez, il quale annuì al di sopra del tettuccio dell'auto. «Allora porti il signor Lucena alla Jefatura e lo faccia deporre… e non sia rude.»
Falcón fece salire Lucena sul sedile posteriore della macchina di Ramírez. Partirono, Falcón curvo sul volante, borbottando dentro di sé mentre le gomme stridevano sull'avenida de la Borbolla. Tutti pazzi in quei giorni. Alcuni casi avevano questo effetto, logoravano troppo i nervi: i casi di bambini, in genere, il rapimento seguito dall'attesa e dall'inevitabile scoperta del corpo e della violenza che aveva subito. E ora stava accadendo la stessa cosa… come se un indefinibile ma orrendo elemento si fosse aggiunto a un'esperienza umana già eccessiva, portando via qualcosa di grande che non avrebbe mai più potuto essere sostituito. La luce del giorno sarebbe stata per sempre un poco più attenuata, l'aria mai più veramente pulita.
«Ne vede molte di cose del genere?» domandò la signora Jiménez. «Sì, suppongo di sì, suppongo che per lei sia la norma.»
«Che cosa?» domandò Falcón stringendosi nelle spalle, sapendo ciò che lei intendeva dire ma per nulla intenzionato a sviscerare l'argomento.
«Gente con una vita perfetta che se la vede distruggere in una manciata di…»
«Mai», ribatté lui, quasi con veemenza.
Quella parola, «perfetta», lo aveva reso più cattivo, gli aveva ricordato ciò che la donna gli aveva detto e che aveva scorticato viva la sua vita «perfetta»: «Dev'essere dura… Essere lasciato perché lei preferiva stare da sola». Si sentiva crudele e dovette fare uno sforzo per non restituire il colpo: dev'essere dura… essere scaricata per un amante dell'altro sesso. Ripose il pensiero con l'etichetta «indegno» sostituendolo con un altro: forse Inés aveva rovinato l'immagine delle donne nella sua mente.
«Ma, Inspector Jefe…» fece per replicare la signora Jiménez.
«No, mai», ribadì Falcón, «perché non ho mai conosciuto nessuno che avesse una vita perfetta. Un passato perfetto e un futuro radioso, sì, ma il passato perfetto è sempre riveduto e corretto brillantemente e il futuro radioso sempre un sogno irrealizzabile. L'unica vita perfetta è sulla carta e anche in questo caso ci sono spazi tra le parole e le righe e raramente si tratta di spazi vuoti.»
«Sì, siamo sempre cauti su ciò che mostriamo agli altri e ciò che riveliamo a noi stessi.»
«Non volevo essere così… veemente», si scusò Falcón. «Ma è stata una giornata lunga e non è ancora finita. Abbiamo incassato qualche duro colpo.»
«Non posso credere di essere stata talmente stupida», disse la donna. «Ho conosciuto Basilio nell'ascensore dell'Edificio Presidente. Probabilmente stava scendendo dall'ottavo piano. Di lui non lo avrei mai detto. Ma… ma perché si è preso la briga di sedurmi?»
«Lo dimentichi. Non è importante.»
«A meno che non mi abbia attaccato qualcosa.»
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