Emilio Salgari - Alla conquista di un impero
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Come abbiamo detto, Kammamuri aveva posto dinanzi al ministro il primo tondo che aveva portato e che conteneva dei pesci che nuotavano entro una salsa nerastra, costringendolo in tal modo ad inghiottire solo quell’intingolo.
Il povero diavolo, vedendo fisso sopra di sé e minacciosi gli occhi di Yanez, si decise finalmente a mangiare quantunque non avesse affatto appetito.
Gli altri non avevano tardato ad imitarlo, vuotando rapidamente i piatti che avevano dinanzi e che non sembravano contenere un intingolo diverso, almeno apparentemente.
Kaksa Pharaum aveva con grandi sforzi inghiottiti alcuni bocconi, quando lasciò cadere bruscamente la forchetta guardando il portoghese con smarrimento.
– Che cosa avete, Eccellenza? – chiese Yanez, fingendo con gran stupore.
– Che mi sento bruciare le viscere, – rispose Kaksa Pharaum che era diventato smorto.
– Non mettete anche voi del pimento nei vostri intingoli?
– Non così forte.
– Continuate a mangiare.
– No… datemi da bere… brucio.
– Da bere? Che cosa?
– Di quella birra, – rispose il disgraziato.
– Ah no, Eccellenza. Questa è esclusivamente per noi e poi voi, come indiano, non potreste berne poiché noi inglesi, onde aumentare la fermentazione della birra, vi mettiamo qualche pezzetto di grasso di mucca.
Voi, Eccellenza, sapete meglio di me che, per voi indiani, quell’animale è sacro e chi ne mangia andrà soggetto a pene tremende quando sarà morto. —
Sandokan e Tremal-Naik fecero uno sforzo supremo per trattenere una clamorosa risata. Ne poteva inventare altre quel demonio di portoghese? Perfino il grasso di mucca nella birra inglese!
Yanez, che conservava una serietà meravigliosa, empì una tazza di birra e la porse al ministro dicendogli:
– Se volete, bevete pure. —
Kaksa Pharaum aveva fatto un gesto d’orrore.
– No… mai… un indiano… meglio la morte… dell’acqua mylord… dell’acqua! – aveva gridato. – Ho il fuoco nel ventre!
– Dell’acqua! – rispose Yanez. – Dove volete che andiamo a prenderne, Eccellenza? Non vi è alcun pozzo in questa pagoda sotterranea ed il fiume è più lontano di quello che credete.
– Muoio!
– Bah! Noi non abbiamo alcun interesse a sopprimervi. Tutt’altro.
– Mi avete avvelenato… ho dei carboni accesi nel petto! – urlò il disgraziato. – Dell’acqua! dell’acqua!
– La volete proprio? —
Kaksa Pharaum si era alzato, comprimendosi con le mani il ventre.
Aveva la schiuma alle labbra e gli occhi gli uscivano dalle orbite.
– Dell’acqua… miserabili! – urlava spaventosamente.
La sua voce non aveva più nulla d’umano. Dalle labbra gli uscivano dei ruggiti che impressionavano perfino la Tigre della Malesia.
Anche Yanez si era alzato di fronte al ministro.
– Parlerai? – gli chiese freddamente.
– No! – urlò il disgraziato.
– E allora noi non ti daremo una goccia d’acqua.
– Sono avvelenato.
– Ti dico di no.
– Datemi da bere!
– Kammamuri! Entra! —
Il maharatto, che doveva essere dietro la porta, si fece innanzi portando due bottiglie di cristallo piene d’acqua limpidissima e le depose sulla tavola.
Kaksa Pharaum, all’estremo delle sue sofferenze, aveva allungate le mani per afferrarle, ma Yanez fu pronto a fermarlo.
– Quando mi avrai detto dove si trova la pietra di Salagraman tu potrai bere finché vorrai, – gli disse. – Ti avverto però che tu rimarrai in nostra mano finché l’avremo trovata, quindi sarebbe inutile ingannarci.
– Brucio tutto! Una goccia d’acqua, una sola…
– Dimmi dove è la pietra.
– Non lo so…
– Lo sai, – rispose l’implacabile portoghese.
– Uccidetemi allora.
– No.
– Siete dei miserabili!
– Se lo fossimo, non saresti più vivo.
– Non posso più resistere! —
Yanez prese un bicchiere e lo empì lentamente d’acqua.
Kaksa Pharaum seguiva, cogli occhi smarriti, quel filo d’acqua, ruggendo come una fiera.
– Parlerai? – chiese Yanez, quand’ebbe finito.
– Sì… sì… – rantolò il ministro. – Dov’è dunque?
– Nella pagoda di Karia.
– Lo sapevamo anche noi. Dove?
– Nel sotterraneo che s’apre sotto la statua di Siva.
– Avanti.
– Vi è una pietra… un anello di bronzo… alzatela… sotto in un cofano…
– Giura su Siva che hai detto la verità.
– Lo… giuro… da bere…
– Un momento ancora. Veglia qualcuno nel sotterraneo?
– Due guardie.
– A te. —
Invece di prendere il bicchiere il ministro afferrò una delle due bottiglie e si mise a bere a garganella, come se non dovesse finire più.
La vuotò più che mezza, poi la lasciò bruscamente cadere e stramazzò, come fulminato, fra le braccia di Kammamuri che gli si era messo dietro.
– Coricalo sul divano, – gli disse Yanez. – Per Giove, che droga infernale hai messo dentro quell’intingolo? Mi assicuri che non morrà, è vero?
– Non temete, signor Yanez, – rispose il maharatto. – Non ho messo che una foglia di serhar, una pianta che cresce nel mio paese.
Domani quest’uomo starà benissimo.
– Tu lo sorveglierai e metterai due dei nostri alla porta. Se fugge siamo tutti perduti.
– E noi dunque che cosa faremo? – chiese Sandokan.
– Aspetteremo questa sera e andremo ad impadronirci della famosa pietra di Salagraman e del non meno famoso capello di Visnù.
– Ma perché ci tieni tanto ad avere quella conchiglia?
– Lo saprai più tardi, fratellino. Fidati di me. —
4. La pietra di Salagraman
Dodici o quattordici ore dopo la confessione del primo ministro del rajah dell’Assam, un drappello bene armato lasciava la pagoda sotterranea, avanzandosi con profondo silenzio lungo la riva sinistra del Brahmaputra.
Era composto di Yanez, Sandokan, Tremal-Naik e di dieci uomini, per la maggior parte malesi e dayachi che, oltre le carabine e quei terribili pugnali colla lama serpeggiante chiamati kriss, portavano delle funi arrotolate intorno ai fianchi, delle torce e dei picconi.
Essendo il sole tramontato già da quattro o cinque ore, nessun essere vivente passeggiava sotto i pipal, i fichi baniani e le palme, che coprivano la riva del fiume, proiettando una fitta ombra.
Il drappello, dopo aver percorso qualche miglio senza aver scambiata una parola, si era arrestato di fronte ad un’isoletta che sorgeva quasi in mezzo al fiume, all’altezza dell’estremità orientale del popoloso sobborgo di Siringar.
– Alt! – aveva comandato Yanez. – Bindar non deve essere lontano.
– È l’indiano che tu hai assoldato? – chiese Sandokan. – Potremo fidarci di lui?
– Surama mi ha detto che è il figlio d’uno dei servi di suo padre e che perciò non dobbiamo dubitare della sua lealtà.
– Uhm! – fece la Tigre crollando il capo. – Io non mi fido che dei miei malesi e dei miei dayachi.
– Lui conosce la pagoda anche internamente, mentre noi non l’abbiamo veduta che all’esterno. Una guida ci era necessaria. —
S’accostò ad una enorme macchia di bambù alti per lo meno quindici metri, che curvavano le loro cime sopra le acque del fiume, e mandò un debole fischio, ripetendolo poi tre volte ad intervalli diversi.
Non erano trascorsi dieci secondi quando fra quelle immense canne si udirono dei leggeri fruscii, poi un uomo sorse bruscamente dinanzi al portoghese, dicendogli:
– Eccomi, sahib. —
Era un giovane indiano di forse vent’anni, bene sviluppato, dall’aria intelligentissima ed i lineamenti piuttosto fini delle caste guerriere. Non aveva indosso che un semplice gonnellino un po’ lungo, il languti degli indù, stretto da una piccola fascia di cotone azzurro, entro cui era passato un pugnale dalla lama larghissima, in forma quasi d’un ferro di lancia ed il corpo aveva interamente spalmato di cenere, probabilmente raccolta sul luogo dove si ardono i cadaveri, e che è il distintivo poco attraente dei seguaci di Siva.
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