Emilio Salgari - Alla conquista di un impero
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– Hai condotto la bangle? – chiese Yanez.
– Sì, padrone, – rispose l’indiano. – È nascosta sotto i bambù.
– Sei solo?
– Tu non mi avevi detto, sahib, di condurre altri. Avrei avuto più piacere, perché la bangle è pesante a guidarsi.
– I miei uomini sono gente di mare. Imbarchiamoci subito.
– Devo avvertirti d’una cosa però.
– Parla e sii breve.
– So che questa notte dinanzi alla pagoda devono bruciare il cadavere d’un bramino.
– Durerà molto la cerimonia?
– Non credo.
– Il nostro arrivo non desterà qualche sospetto?
– E perché sahib? Le barche approdano sovente all’isolotto, – disse l’indiano.
– Andiamo allora.
– Avrei però desiderato meglio che nessuno ci vedesse a sbarcare, – disse Sandokan.
– Rimarremo a bordo, finché tutti si saranno allontanati, – rispose Yanez. – Non faranno troppa attenzione a noi. —
Seguirono il giovane indiano, aprendosi faticosamente il passo fra quelle durissime canne giganti, che alla base avevano la circonferenza d’una coscia di fanciullo, e giunsero sulla riva del fiume.
Sotto le ultime canne che, curvandosi verso l’acqua, formavano delle superbe arcate, stava nascosto uno di quei pesanti battelli, che gl’indiani adoperano sui loro fiumi per trasportare il riso, privo però degli alberi, ma provvisto invece d’una tettoia di stoppie destinata a riparare l’equipaggio dalle ingiurie del tempo.
Yanez ed i suoi compagni s’imbarcarono; i malesi ed i dayachi afferrarono i lunghi remi e la bangle lasciò il nascondiglio dirigendosi verso l’isolotto, nel cui mezzo giganteggiava fra le tenebre una enorme costruzione in forma di piramide tronca.
L’indiano aveva detto il vero annunciando un funerale. La massiccia barca non aveva percorsa ancora mezza distanza, quando sulla riva dell’isolotto si videro comparire numerose torce e raggrupparsi intorno ad una minuscola cala che doveva servire d’approdo alle barche del fiume.
– Ecco dei guasta affari, – disse Yanez a Tremal-Naik. – Ci faranno perdere un tempo prezioso.
– Sono appena le dieci, – rispose l’indiano – e per la mezzanotte tutto sarà finito.
Trattandosi d’un bramino, la cerimonia sarà più lunga delle altre, avendo diritto a speciali riguardi anche dopo morte.
Se il morto fosse un povero diavolo qualunque la faccenda sarebbe spiccia.
Una tavola di legno per coricarvi il cadavere, una lampadina accesa da mettergli in fondo ai piedi, una spinta e buona notte.
La corrente s’incarica di portare il morto nel sacro Gange, quando i coccodrilli e i marabù lo risparmiano.
– Ciò che accadrà di rado, – disse Sandokan, che stava seduto sul bordo della bangle.
– Puoi contarlo come un caso miracoloso, – rispose Tremal-Naik. – Appena oltrepassata la città, sauriani e volatili vanno a gara per far sparire carne ed ossa.
– E di quel bramino che cosa faranno invece? – chiese Sandokan.
– Il funerale sarà un po’ lungo, esigendo certe formalità speciali. Innanzi a tutto quando un bramino entra in agonia non si trasporta semplicemente sulla riva del fiume, perché spiri al dolce mormorìo dell’acqua, che lo trasporterà nel cailasson, ossia nel paradiso; bensì in un luogo speciale, che prima sarà stato accuratamente cosparso di sterco di mucca e su un pezzo di cotone mai prima di allora usato.
– Uscito poco prima dal cotonificio, – disse Yanez, ridendo. – Ah! Siete dei bei matti voi indiani.
– Oh! Aspetta un po’, – disse Tremal-Naik. – Giunge allora un sacerdote bramino accompagnato dal suo primogenito onde procedere alla cerimonia chiamata sarva prayasibrit.
– Che cosa vuol dire?
– La purificazione dei peccati.
– Toh! Credevo che i bramini non ne commettessero mai!
– Ed in che consiste? – chiese Sandokan che pareva s’interessasse vivamente di quegli strani particolari.
– Nel versare in bocca al moribondo un liquore speciale dei bramini, che si pretende sacro, mentre ai seguaci di Visnù si somministra un po’ d’acqua dove fu messa una pietra di Salagraman qualunque.
– Per soffocarli più presto è vero? – disse Yanez. – Infatti non è certamente un bel divertimento assistere all’agonia d’un moribondo.
È meglio spedirlo presto all’altro mondo.
– Ma no, – rispose Tremal-Naik – si lascia morire in pace… cioè, veramente no, perché il moribondo deve aggrapparsi alla coda d’una mucca e lasciarsi trascinare per un certo tratto di via onde egli sia ben sicuro di ritrovarne una di simile che lo aiuterà a passare il fiume di fuoco che gira intorno al Yama-lacca, dove abita il dio dell’inferno.
– Così la finiscono più presto, – disse l’incorreggibile Yanez. – Un po’ di galoppo dietro una mucca non deve far male ad un povero moribondo che sta per vomitare la sua anima. E poi?
– Lo vedremo quando avremo affondata l’ancora, – rispose Tremal-Naik. – Vedo una donna che gira sulla riva alzando disperatamente le braccia. Deve essere la sposa del morto.
– E questo tonfo nel fiume lo hai udito?
– È il figlio primogenito del bramino, che si è gettato nel fiume, dopo d’aver indossato i suoi più bei vestiti, prima di farsi tagliare accuratamente la barba, se ne ha, ed i capelli.
– Se io fossi il viceré dell’India farei rinchiudere in un ospedale di pazzi tutti i bramini del reame. Parola di Yanez.
– Queste cerimonie sono dettate dai libri sacri.
– Scritti quando quei sacerdoti erano pieni di bâng. —
La grossa barca in quel momento era giunta dinanzi al minuscolo seno, e Bindar aveva lasciata cadere l’ancora, arrestandola ad una quindicina di passi dalla riva.
Quindici o venti persone si erano radunate intorno ad una specie di palanchino formato di bambù intrecciati, su cui riposava un cadavere, che aveva indosso un ampio dootèe di seta gialla.
Dovevano essere tutti parenti ed amici del morto, però si vedevano in mezzo a loro alcuni pourohita ossia sacerdoti bramini accompagnati da tre o quattro gouron, specie di sagrestani incaricati dalla pulizia delle pagode e dei bassi servizi del culto.
Tutti avevano delle torce, sicché Yanez ed i suoi compagni potevano osservare benissimo quanto quegli uomini stavano per compiere.
Il primogenito del morto era uscito dal fiume, si era fatto già radere in fretta e si era accostato al genitore, seguìto dalla madre alla quale i parenti avevano levato il thaly, quel gioiello che è l’insegna delle donne sposate e tagliati i capelli, che non doveva più mai lasciarsi crescere durante tutta la sua vedovanza.
Il primo gettò sul cadavere una manata di fiori, poi fece alzare la barella e la fece trasportare alcuni passi più lontano, dove era una buca lunga due metri e larga uno, circondata da pezzi di legna e da sterco disseccato di mucca e fece deporre vicino un vaso di terra entro cui bruciavano dei carboni.
Il morto fu privato della sua bella veste e dei gioielli, per non perdere inutilmente l’una e gli altri, poi il primogenito mise sul petto nudo del bramino un pezzo di sterco acceso, vi versò sopra un po’ di burro sciolto e mise in bocca al cadavere una mezza rupia e alcuni granelli di riso che prima aveva bagnati con un po’ di saliva e si ritrasse, pronunciando una preghiera.
I parenti s’accostarono a loro volta, accumulando sul bramino le legne e le mattonelle di sterco.
– È finita la cerimonia? – chiese Yanez a Tremal-Naik.
– Aspetta un momento. Il figlio deve ancora compiere qualche cosa. —
Il giovane infatti aveva preso un vaso di terra pieno d’acqua e l’aveva spaccato con violenza sulla testa del defunto.
– Ah! birbante! – esclamò il portoghese.
– Perché? Ora almeno è sicuro che suo padre è veramente morto.
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