Emilio Salgari - Alla conquista di un impero
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– Se fosse stato ancora agonizzante l’avrebbe accoppato egualmente. —
I parenti avevano fatto circolo accostando le torce al rogo.
Una gran fiamma si sprigionò subito rompendo bruscamente le tenebre e avvolgendo, con rapidità incredibile, il cadavere, che era tutto cosparso di burro.
Fra il crepitare del legname ben imbevuto di materie resinose ed il salmodiare del pourohita e dei suoi aiutanti, si udivano le urla disperate del figlio e della vedova, ed ai bagliori delle fiamme si vedevano i parenti a rotolarsi per terra ed a picchiarsi il petto con pugni tremendi.
– Quegli stupidi vogliono sfondarsi le costole, – diceva Yanez. – Non mi stupirei che domani fossero tutti a letto. —
Quella fiammata gigantesca non durò che un quarto d’ora, poi quando il cadavere fu consumato, i parenti con pale di ferro raccolsero la cenere e le ossa e le gettarono nel fiume, quindi si allontanarono tutti in silenzio, scomparendo ben presto sotto gli alberi, che coprivano buona parte dell’isolotto.
– Possiamo sbarcare ora? – chiese Sandokan rivolgendosi a Bindar, che era rimasto sempre silenzioso.
– Sì, sahib, – rispose l’indiano. – A quest’ora i gurum della pagoda devono dormire profondamente.
– Andiamo dunque. Sono impaziente di condurre a termine questa avventura notturna.
– E di menare possibilmente le mani, è vero, fratellino? – disse Yanez.
– Sì, se si può, – rispose la Tigre della Malesia. – Le mie braccia cominciano ad irrugginirsi. —
Allentarono la fune dell’ancora e con pochi colpi di remo spinsero la bangle verso la riva.
– Che due uomini rimangano a guardia della barca, – disse Yanez. – Dobbiamo assicurarci la ritirata. —
Raccolsero le armi e scesero silenziosamente a terra, cacciandosi sotto un bosco, formato quasi esclusivamente di palmizi tara e d’immensi gruppi di bambù.
Bindar si era messo alla testa del drappello, fiancheggiato da Yanez, il quale voleva sorvegliarlo personalmente, non avendo, checché avesse detto a Sandokan, una completa fiducia di quell’indiano, che da soli pochi giorni conosceva.
La pagoda non era lontana più di due tiri di carabina, quindi in una ventina di minuti e anche meno, il drappello poteva giungervi.
Tutti però si avanzavano con estrema prudenza onde non farsi scorgere. Era molto improbabile che a quell’ora così inoltrata qualche indiano passeggiasse per quelle boscaglie, nondimeno si tenevano in guardia.
Attraversata la zona dei palmizi e dei bambù, si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vasta radura, interrotta solamente da gruppi di piccole piante.
Nel mezzo giganteggiava la pagoda di Karia.
Come abbiamo detto, quel tempio, veneratissimo da tutti gli assamesi, perché conteneva la famosa pietra di Salagraman col capello di Visnù, si componeva d’una enorme piramide tronca; colle pareti abbellite da sculture che si succedevano senza interruzione dalla base alla cima e che rappresentavano in dimensioni più o meno grandiose, le ventuno incarnazioni del dio indiano.
Quindi, pesci colossali, testuggini, cinghiali, leoni, giganti, nani, cavalli, ecc.
Solo dinanzi alla porta d’entrata si rizzava una torre piramidale più piccola, il cobrom, coronato da una cupola e colle muraglie pure adorne di figure per la maggior parte poco pulite, rappresentanti la vita, le vittorie e le disgrazie delle diverse divinità.
Ad una altezza di venti piedi s’apriva una finestra sul cui davanzale ardeva una lampada.
– È per di là che dovremo entrare, sahib, – disse Bindar volgendosi verso Yanez, che aveva corrugata la fronte, scorgendo quel lume.
– Temevo che qualcuno vegliasse nella pagoda, – rispose il portoghese.
– Non avere alcun timore: è uso mettere una lampada sulla prima finestra del cobrom.
Se fosse un giorno festivo, ve ne sarebbero quattro invece d’una.
– Dove troveremo la pietra di Salagraman? Nella pagoda o in questa specie di torre?
– Nella pagoda di certo. —
Yanez si volse verso i suoi uomini, chiedendo:
– Chi saprà raggiungere quella finestra e gettarci una fune?
– Se forzassimo la porta invece? – chiese Sandokan.
– Perderesti inutilmente il tuo tempo, – disse Tremal-Naik. – Tutte quelle dei nostri templi sono di bronzo e d’uno spessore enorme.
D’altronde i tuoi uomini non saranno troppo imbarazzati a giungere lassù. Sono come le scimmie del loro paese.
– Lo so, – rispose Yanez.
Indicò due dei più giovani del drappello e disse semplicemente loro:
– In alto, fino alla finestra! —
Non aveva ancora finito, che quei diavoli, un malese ed un dayaco, salivano già aggrappandosi alle divinità, ai giganti, ai trimurti indù rappresentanti lo sconcio lingam che riunisce Brahma, Siva e Visnù.
Per quei marinai, mezzi selvaggi, abituati a salire di corsa le alberature delle navi e camminare come fossero a terra sui leggeri pennoni dei loro prahos o inerpicarsi sugli altissimi durion delle loro foreste, non era che una semplice scalata quella manovra.
In meno di mezzo minuto si trovarono entrambi sul davanzale della finestra, da dove gettarono due funi, dopo di averle assicurate a due aste di ferro, che sostenevano due gabbie destinate a contenere dei batuffoli di cotone imbevuti d’olio di cocco durante le straordinarie illuminazioni.
– A me pel primo, – disse Sandokan. – A te l’altra fune, Tremal-Naik.
Tu Yanez, alla retroguardia.
– A me, che devo conquistare il trono di Surama! – esclamò il portoghese.
– Ragione di più per conservare la preziosissima persona d’un futuro rajah, – rispose Tremal-Naik, sorridendo. – I pezzi grossi non devono esporsi ai gravi pericoli che all’ultimo momento.
– Andate al diavolo!
– Niente affatto, saliremo verso il cielo invece.
– Va’ a trovare Brahma adunque! —
Sandokan e Tremal-Naik si issarono rapidamente, scomparendo fra le tenebre. Quando i malesi ed i dayachi videro la fune a scuotersi, a loro volta cominciarono la salita, mentre il portoghese ne regolava l’ascensione.
Frattanto la Tigre della Malesia e l’indiano avevano raggiunto il davanzale, dove si tenevano a cavalcioni il malese ed il dayaco, i quali si erano già affrettati a spegnere il lume onde non si potessero scorgere le persone che salivano.
– Avete udito nulla? – aveva chiesto subito Sandokan.
– No, padrone.
– Vediamo se qui vi è un passaggio.
– Lo troveremo di certo, – disse Tremal-Naik. – Tutti i cobrom comunicano colla pagoda centrale.
– Accendete una torcia. —
Il malese, che ne aveva due passate nella fascia, fu pronto a obbedire.
Sandokan la prese, s’abbassò fino quasi a terra onde la luce non si espandesse troppo e fece qualche passo innanzi.
Si trovavano in una minuscola stanza, la quale aveva una porta di bronzo assai bassa e che era solamente socchiusa.
– Suppongo che metterà su una scala, – mormorò.
La spinse, cercando di non produrre alcun rumore e si trovò dinanzi ad un pianerottolo pure minuscolo. Sotto s’allungava una stretta gradinata che pareva girasse su se stessa.
– Finché gli altri salgono, esploriamo, – disse Tremal-Naik.
– Lasciate che vi preceda, – disse una voce.
Era Bindar, il quale aveva preceduto tutti gli altri.
– Conosci il passaggio? – gli chiese Sandokan.
– Sì, sahib.
– Passa dinanzi a noi e bada che noi non staccheremo un solo istante i nostri sguardi da te. —
Il seguace di Siva ebbe un sorriso, ma non rispose affatto.
La scala era strettissima, tanto da permettere a malapena il passaggio a due uomini situati l’uno a fianco dell’altro.
Sandokan e Tremal-Naik, seguìti dagli altri, che raggiungevano a poco a poco la finestra, si trovarono ben presto in un corridoio, che pareva si avanzasse verso il centro della pagoda e che scendeva molto rapidamente.
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