Emilio Salgari - Alla conquista di un impero
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– Chi lo ha detto? – chiese Yanez ironicamente.
– Lo hanno affermato i gurus. —
Il portoghese alzò le spalle, mentre la Tigre della Malesia faceva udite un risolino beffardo.
– Vi ho detto, Eccellenza, che a me occorre quella conchiglia: aggiungerò poi, per placare i vostri timori, che non lascerà l’Assam.
Io non la terrò nelle mie mani più di ventiquattro ore, ve lo giuro.
– Allora andate a chiedere al rajah un tale favore. Io non posso accordarlo, perché ignoro ove i sacerdoti della pagoda di Karia la nascondano.
– Ah! Non vuoi dirmelo, – disse Yanez cambiando tono. – La vedremo! —
In quel momento si udì ad echeggiare il gong, sospeso esternamente alla porta.
– Chi viene a disturbarci? – chiese Yanez, aggrottando la fronte.
– Io, padrone: Sambigliong, – rispose una voce.
– Che cosa c’è di nuovo?
– Tremal-Naik è giunto. —
Sandokan aveva lasciata la pipa, e si era alzato precipitosamente.
La porta si aprì ed un uomo comparve, dicendo:
– Buona sera, miei cari amici: eccomi pronto ad aiutarvi. —
Le destre di Sandokan e di Yanez si erano tese verso il nuovo venuto, il quale le aveva strette fortemente, esclamando:
– Ecco un bel giorno: mi pare di tornare giovane insieme a voi. —
L’uomo che così aveva parlato era un bellissimo tipo d’indiano bengalino, di circa quarant’anni, dalla taglia elegante e flessuosa, senz’essere magra, dai lineamenti fini ed energici, la pelle lievemente abbronzata e lucidissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco.
Vestiva come i ricchi indiani modernizzati dalla Young-India, i quali ormai hanno lasciato il dootèe e la dubgah pel costume anglo-indù, più semplice, ma anche più comodo: giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia ricamata e altissima, calzoni stretti pure bianchi e turbantino rigato sul capo.
– E tua figlia Darma? – avevano chiesto ad una voce Yanez e Sandokan.
– È in viaggio per l’Europa, amici – rispose l’indiano. – Moreland desidera far visitare a sua moglie l’Inghilterra.
– Sai già perché ti abbiamo chiamato? – chiese Yanez.
– So tutto: voi volete mantenere la promessa fatta quel terribile giorno in cui il Re del Mare affondava sotto i colpi di cannone del figlio di Suyodhana.
– Di tuo genero, – aggiunse Sandokan, ridendo.
– È vero… Ah! —
Si era vivamente voltato guardando il ministro del rajah, il quale stava immobile presso la tavola, come una mummia.
– Chi è costui? – chiese l’indiano.
– Il primo ministro di S. A. Sindhia, principe regnante dell’Assam, – rispose Yanez. – Toh! Tu giungi proprio in buon punto. Sapresti tu, Tremal-Naik, far parlare quell’uomo che si ostina a non dirmi la verità?
Voi indiani siete dei grandi maestri.
– Non vuol parlare? – disse Tremal-Naik, squadrando il disgraziato che pareva tremasse. – Hanno fatto cantare anche me gli inglesi, quando ero coi thugs.
Kammamuri però è più destro di me in tali faccende. Ti preme, Yanez?
– Sì.
– Hai ricorso alle minacce?
– Ma senza buon esito.
– Ha cenato quel signore?
– Sì.
– È quasi mattina, può quindi fare uno spuntino, o una semplice tiffine senza birra però.
È vero che l’accetterete in nostra compagnia?
– Chiamalo Eccellenza, – disse Yanez maliziosamente.
– Ah! Scusate, Eccellenza, – disse Tremal-Naik con accento un po’ ironico. – Mi ero scordato che voi siete il primo ministro del rajah. Accettate dunque una fiffine?
– Io di solito non mangio la prima colazione che alle dieci del mattino, – rispose il ministro a denti stretti.
– Voi, Eccellenza, adotterete le abitudini dei miei amici. Sono partito ieri mattina da Calcutta, ho mangiato malissimo lungo la via ferroviaria, peggio ancora nel vostro paese, quindi ho una fame da tigre.
Amici, lasciate che vada ad ordinare a Kammamuri una succolenta colazione. Suppongo che i viveri non mancheranno in questa vecchia pagoda.
– Qui regna l’abbondanza, – rispose Yanez.
– Vieni con me, allora. Kammamuri è un cuoco abilissimo. —
Si presero a braccetto e uscirono insieme, lasciando soli il disgraziato ministro del rajah e Sandokan.
Questi aveva riacceso il suo cibuc e, dopo essersi sdraiato, si era rimesso a fumare silenziosamente, spiando attentamente il prigioniero.
Kaksa Pharaum si era lasciato cadere su una sedia, prendendosi il capo fra le mani. Pareva completamente annichilito da quel succedersi di avvenimenti imprevisti.
I due personaggi stettero parecchi minuti silenziosi, l’uno continuando a fumare e l’altro a meditare sui tristi casi della vita, poi il pirata, staccando dalle labbra la pipa, disse:
– Vuoi un consiglio, Eccellenza? —
Kaksa Pharaum aveva alzata vivamente la testa, fissando i suoi piccoli occhi sul formidabile pirata.
– Che cosa vuoi, sahib? – chiese, battendo i denti.
– Devi dire, se vuoi evitare maggiori guai, quello che desidera sapere il mio amico.
Bada, Eccellenza! È un uomo terribile, che non indietreggerà dinanzi a nessun mezzo feroce.
Io sono la Tigre della Malesia: egli è la Tigre bianca.
Quale sarà il più implacabile? Ah! Io non te lo saprei dire.
– Ma ho già detto che io ignoro dove si trova la pietra di Salagraman.
– Il sigaro che il mio amico ti ha fatto fumare ti ha annebbiato un po’ troppo il cervello, – rispose Sandokan. – È necessaria una buona colazione. Vedrai, Eccellenza, come la memoria diventerà limpida. —
Tornò a rovesciarsi sul divano e si rimise a fumare con tutta calma.
Un silenzio profondo regnava nel salotto. Si sarebbe detto che all’infuori di quei due personaggi nessuno abitava la vecchia pagoda sotterranea.
Kaksa Pharaum, più che mai spaventato, era tornato ad accasciarsi sulla sua sedia, col capo fra le mani. La Tigre della Malesia non fiatava, anzi si studiava di non fare alcun rumore colle labbra.
I suoi occhi però pieni di fuoco, non si staccavano un solo momento dal ministro. Si comprendeva che stava in guardia.
Trascorse una mezz’ora, poi la porta tornò ad aprirsi ed un altro indiano entrò, tenendo fra le mani un piatto fumante che conteneva dei pesci annegati in una salsa nerastra.
Era un uomo presso la quarantina, piuttosto alto di statura e membruto, tutto vestito di bianco, col viso molto abbronzato che aveva dei riflessi dell’ottone e che aveva agli orecchi dei pendenti d’oro che gli davano un non so che di grazioso e di strano.
– Ah! – esclamò Sandokan, deponendo la pipa. – Sei tu, Kammamuri? Ben felice di vederti, sempre in salute e sempre fedele al tuo padrone.
– I maharatti muoiono al servizio del loro signore, – rispose l’indiano. – Salute a te, invincibile Tigre della Malesia. —
Altri quattro uomini erano entrati, portando altri tondi pieni di cibi diversi, bottiglie di birra e salviette.
Kammamuri depose il suo tondo dinanzi al ministro, mentre entravano Yanez e Tremal-Naik.
La Tigre della Malesia si era alzata per sedersi di fronte al prigioniero, il quale guardava con terrore or l’uno ed ora gli altri, senza però pronunciare una sillaba.
– Perdonate, Eccellenza, se la colazione che io vi offro è ben inferiore alla cena che vi ho mangiata, ma siamo un po’ discosti dal centro della città ed i negozi non sono ancora aperti.
Fate onore al nostro modesto pasto e rasserenatevi. Avete una cera da funerale.
– Io non ho fame, mylord, – balbettò il disgraziato.
– Mandate giù pochi bocconi per tenerci compagnia.
– E se mi rifiutassi?
– In tal caso vi costringerei colla forza. Non si fa l’offesa d’un rifiuto ad un mylord.
La nostra cucina d’altronde non è meno buona della vostra: assaggiate e vi persuaderete. Poi riprenderemo il nostro discorso. —
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