Emilio Salgari - Alla conquista di un impero
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Lo stupore, causato da quell’assassinio in piena orgia non era ancora cessato, quando un secondo colpo rintronava ed un altro convitato stramazzava, bruttando col suo sangue la tovaglia.
Era il rajah che aveva fatto quel doppio colpo. Il miserabile era comparso su un terrazzino prospiciente sul cortile e faceva fuoco sui suoi parenti. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite, i lineamenti sconvolti: pareva un vero pazzo.
Intorno aveva i suoi ministri che gli porgevano ora tazze colme di liquori ed ora delle carabine cariche.
Uomini, donne e fanciulli si erano messi a correre all’impazzata pel cortile, cercando invano un’uscita, mentre il rajah, urlando come una belva feroce, continuava a sparare facendo nuove vittime. Mahur, che era il più odiato di tutti, fu uno dei primi a cadere. Una palla gli aveva fracassata la spina dorsale.
Poi caddero successivamente sua moglie ed i suoi due figli.
La strage durò una mezz’ora. Trentasette erano i parenti del principe e trentacinque erano caduti sotto i colpi del feroce monarca.
Due soli erano miracolosamente sfuggiti alla morte: Sindhia il giovane fratello del rajah e la figlia del capo dei kotteri, la piccola Surama, che si era nascosta dietro il cadavere di sua madre.
Sindhia era stato segno a tre colpi di carabina e tutti erano andati a vuoto, perché il giovane principe, con dei salti da tigre, ben misurati, si era sempre sottratto alle palle.
In preda ad un terribile spavento, non cessava di gridare al fratello:
«Fammi grazia della vita ed io abbandonerò il tuo regno.
Sono figlio di tuo padre. Tu non hai il diritto di uccidermi».
Il rajah, completamente ubriaco, rimaneva sordo a quelle grida disperate e sparò ancora due colpi, senza riuscire a coglierlo, tanto era lesto suo fratello; poi, preso forse da un improvviso pentimento, abbassò la carabina che un ufficiale gli aveva data, gridando al fuggiasco:
«Se è vero che tu abbandonerai per sempre il mio stato ti fo grazia della vita, ad una condizione».
«Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai», rispose il disgraziato.
«Io getterò in aria una rupia; se tu la coglierai con una palla della carabina, ti lascerò partire pel Bengala senza farti alcun male.»
«Accetto», rispose allora il giovane principe.
Il rajah gli gettò l’arma che Sindhia prese al volo.
«Ti avverto», urlò il pazzo, «che se manchi la moneta subirai la medesima sorte degli altri.»
«Gettala!»
Il rajah fece volare in aria il pezzo d’argento. Si udì subito uno sparo e non fu la moneta bucata, bensì il petto del tiranno.
Sindhia, invece di far fuoco sulla moneta, aveva voltata rapidamente l’arma contro suo fratello e l’aveva fulminato, spaccandogli il cuore.
I ministri e gli ufficiali si prosternarono dinanzi al giovane principe, che aveva liberato il regno da quel mostro e senz’altro lo accettarono come rajah dell’Assam.
– Voi, mylord, mi avete narrata una storia che qualunque assamese conosce a fondo, – disse il ministro.
– Non il seguito però, – rispose Yanez, versandosi un altro bicchiere ed accendendo una seconda sigaretta. – Sapreste dirmi che cosa è avvenuto della piccola Surama, figlia del capo dei kotteri? —
Kaksa Pharaum alzò le spalle, dicendo poi:
– Chi può essersi occupato d’una bambina?
– Eppure quella bambina era nata ben vicina al trono dell’Assam.
– Continuate, mylord.
– Quando Sindhia seppe che Surama era sfuggita alla morte, invece di accoglierla alla corte o almeno di farla ricondurre fra le tribù devote a suo padre, la fece segretamente vendere a dei thugs che percorrevano allora il paese per procurarsi delle bajadere.
– Ah! – fece il ministro.
– Credete Eccellenza che abbia agito bene il rajah vostro signore? – chiese Yanez, diventato improvvisamente serio.
– Non so. È morta poi?
– No, Eccellenza, Surama è diventata una bellissima fanciulla ora e non ha che un solo desiderio: quello di strappare a suo cugino la corona dell’Assam. —
Kaksa Pharaum aveva fatto un soprassalto.
– Dite, mylord? – chiese spaventato.
– Che riuscirà nel suo intento, – rispose freddamente Yanez.
– E chi l’aiuterà? —
Il portoghese s’alzò e puntando l’indice verso la Tigre della Malesia che non aveva cessato di fumare, gli rispose:
– Quell’uomo là innanzi a tutto, che ha rovesciato troni e che ha vinto la terribile Tigre dell’India, Suyodhana, il famoso capo dei thugs indiani, e poi io.
L’orgogliosa e la grande Inghilterra, dominatrice di mezzo mondo, ha piegato talvolta il capo dinanzi a noi, tigri di Mompracem. —
Il ministro si era a sua volta alzato, guardando con profonda ansietà ora Yanez ed ora Sandokan.
– Chi siete voi, dunque? – chiese finalmente, balbettando.
– Degli uomini che nemmeno i vostri più formidabili uragani potrebbero arrestare, – rispose Yanez, con voce grave.
– E che cosa volete voi da me? Perché mi avete trasportato in questo luogo che io non ho mai veduto? —
Yanez, invece di rispondere, riempì nuovamente le tazze e ne porse una al ministro, dicendogli colla sua voce insinuante:
– Bevete prima, Eccellenza. Questo squisito liquore vi rischiarirà le idee meglio del vostro detestabile toddy. Bevetene pure liberamente: non vi farà male. —
Il ministro, che si sentiva invadere da un invincibile tremito nervoso, credette opportuno di non rifiutarsi.
Yanez si raccolse un momento, poi, fissando il disgraziato ministro che aveva le labbra smorte, gli chiese:
– Chi è l’europeo che si trova alla corte del rajah?
– Un uomo bianco che io detesto.
– Benissimo: il suo nome?
– Si fa chiamare Teotokris.
– Teotokris! – mormorò Yanez. – Questo è un nome greco.
– Un greco! – esclamò Sandokan, scuotendosi. – Che cos’è? Io non ho mai udito a parlare di greci.
– Tu non sei un europeo, – disse Yanez. – Sono uomini che godono fama di essere i più furbi dell’intera Europa.
– Avversari temibili?
– Temibilissimi.
– Buoni per te, – rispose la Tigre della Malesia, sorridendo.
Il portoghese gettò via con stizza la sigaretta, poi rivolgendosi al ministro:
– Gode molta considerazione a corte, quello straniero? – gli chiese.
– Più che noi ministri.
– Ah! Benissimo. —
Si era nuovamente alzato. Fece tre o quattro giri intorno alla tavola, torcendosi i baffi e lisciandosi la folta barba, poi, fermandosi dinanzi al ministro che lo guardava attonito, gli chiese a bruciapelo:
– Dov’è che i gurus nascondono la pietra di Salagraman che contiene il famoso capello di Visnù? —
Kaksa Pharaum guardò il portoghese con profondo terrore e rimase muto, come se la lingua gli si fosse improvvisamente paralizzata.
– Mi avete capito, Eccellenza? – chiese Yanez un po’ minaccioso.
– La pietra… di Salagraman! – balbettò il ministro.
– Sì.
– Ma… io non so dove si trova. Solo i sacerdoti ed il rajah ve lo potrebbero dire, – rispose Kaksa, riprendendo animo. – Io non so nulla, mylord.
– Voi mentite, – gridò Yanez, alzando la voce. – Anche i ministri del rajah lo sanno: me lo hanno confermato parecchie persone.
– Gli altri forse, non io.
– Come! Il primo ministro di Sindhia ne saprebbe meno dei suoi inferiori? Eccellenza, voi giuocate una pessima carta, ve ne avverto.
– E perché vorreste sapere, mylord, dove si trova nascosta?
– Perché quella pietra mi occorre, – rispose Yanez audacemente. —
Kaksa Pharaum mandò una specie di ruggito.
– Voi rubate quella pietra! – gridò. – Non sapete che il capello che contiene, appartenne, migliaia di anni or sono, ad un dio protettore dell’India? Non sapete che tutti gli stati c’invidiano quella reliquia? Non sapete che, se ci venisse portata via, sarebbe la fine dell’Assam?
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