Emilio Salgari - Alla conquista di un impero
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Era uno di quei comodi veicoli che gl’indiani adoperano quando intraprendono qualche lungo viaggio e che sono chiamati tciopaya, dove, al riparo dal sole, possono mangiare, fumare e dormire, essendo la cassa divisa in due parti: una che serve da salotto e una da stanza da letto.
Quattro paia di zebù, bianchissimi, colle gobbe cadenti ed i dorsi coperti da gualdrappe di stoffa rossa, erano aggiogati al massiccio ruotabile.
Il ministro fu deposto su un materasso, Yanez e Sandokan vi si sedettero presso e, mentre i loro compagni, per non destare sospetti, si disperdevano, il carro si mise in moto, guidato da un malese vestito da indiano che teneva in mano una torcia per illuminare la via.
– Subito a casa, – disse Sandokan al cocchiere.
Poi, volgendosi verso Yanez che stava accendendo una sigaretta, gli chiese:
– Parlerai ora? Io non riesco affatto a capire che razza d’idea ti è nata nel cervello.
Credevo che ti ammazzassero davvero là dentro.
– Un uomo bianco e mylord! Uhm! Non l’avrebbero mai osato, – rispose Yanez, aspirando lentamente il fumo e rigettandolo con altrettanta lentezza.
– Hai giuocato però una partita che poteva costarti cara.
– Bisogna ben divertirsi qualche volta.
– Insomma che cosa vuoi fare di questa mummia?
– È una Eccellenza, ti ho detto.
– Che non farà mai una bella figura alla corte del rajah.
– La farò invece io.
– Vuoi dunque introdurti alla corte di quel sospettoso tiranno? Sono otto giorni che tutti continuano a ripeterci che non vuol vedere nessun europeo.
– Ed io ti dico che mi riceverà e con grandi onori. Aspetta che io possa avere nelle mie mani la pietra di Salagraman ed il famoso capello di Visnù e vedrai come mi accoglierà.
– Chi?
– Il rajah, – rispose Yanez. – Credevi tu che io fossi venuto qui a guardare il bel paese della mia Surama, senza darle anche la corona?
– Era ben questa la nostra idea, – disse Sandokan. – Non avrei lasciato il Borneo per fare delle passeggiate per le vie di Gauhati.
Non riesco però a comprendere che cosa possa entrare il rapimento d’un ministro, il capello di Visnù e la pietra di Salagraman colla conquista d’un regno.
– Sai tu, innanzi a tutto, fratellino, dove i sacerdoti tengono nascosta la conchiglia?
– Io no.
– E nemmeno io, quantunque abbia interrogati, in questi otto giorni, non so quanti indiani.
– Chi ce l’indicherà dunque?
– Il ministro, – rispose Yanez.
Sandokan guardò il portoghese con vera ammirazione.
– Ah! che diavolo d’uomo! – esclamò poi. – Tu saresti capace di giuocare Brahma, Siva e anche Visnù insieme.
– Forse, – rispose Yanez, ridendo. – Troveremo però alla corte del rajah un ostacolo che sarà duro da abbattere.
– Che cos’è?
– Un uomo.
– Se hai rapito un ministro, potrai fare scomparire anche quello.
– Si dice che goda una grande influenza a corte e che sia lui che fa di tutto per impedire agli stranieri di razza bianca di metterci dentro i piedi.
– Chi è?
– Un europeo, mi hanno detto.
– Qualche inglese.
– Non ho potuto saperlo. Ce lo dirà il ministro. —
Una brusca fermata che per poco non fece loro perdere l’equilibrio, interruppe la loro conversazione.
– Siamo giunti, padrone, – disse il conduttore del carro.
Dieci o dodici uomini, gli stessi che li avevano aiutati a rapire il ministro, erano usciti da una porta, schierandosi silenziosamente ai due lati del veicolo.
– Vi ha seguìti nessuno? – chiese loro Sandokan, balzando a terra.
– No, padrone – risposero ad una voce.
– Nulla di nuovo nella pagoda?
– Calma assoluta.
– Prendete il ministro e portatelo nel sotterraneo di Quiscena. —
Il carro si era fermato dinanzi ad una gigantesca roccia che s’appoggiava in parte al Brahmaputra e che s’alzava in una località deserta affatto, non essendovi intorno che delle antichissime muraglie semidiroccate, che un tempo dovevano aver servito di cinta alla città e ad ammassi colossali di macerie.
Sulla fronte, al di sopra di una porta di bronzo, si scorgevano confusamente delle divinità indiane, di pietra nera, allineate su una specie di cornicione sorretto da una infinità di teste d’elefante, scavate nella roccia e che tenevano le proboscidi arrotolate.
Doveva essere qualche pagoda sotterranea, come già ve ne sono tante nell’India, poiché in alto non si vedeva alcuna cupola né semi-circolare, né piramidale.
Altri uomini erano usciti, portando delle torce ed unendosi ai primi. Pareva che tutte quelle persone, quantunque indossassero costumi assamesi, appartenessero a due razze ben distinte che nulla o ben poco avevano d’indiano.
Infatti, mentre alcuni erano bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri con sfumature rossastro cupo e gli occhi piccoli e nerissimi, altri invece erano piuttosto alti, di colore giallastro, coi lineamenti bellissimi, quasi regolari e gli occhi grandi, bene aperti ed intelligentissimi.
Un uomo che avesse avuto profonda conoscenza della regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per malesi autentici e gli altri per dayachi bornesi, due razze che si equivalevano per ferocia, per audacia e per coraggio indomito.
– Prendete quest’uomo, – aveva detto Yanez, scendendo dal carro e sporgendo il ministro sempre addormentato.
Un malese che aveva il volto rugoso, ma i capelli ancora nerissimi e forme quasi atletiche, afferrò fra le poderose braccia Kaksa Pharaum e lo trasportò nella pagoda.
– Conduci il carro nel nascondiglio, – proseguì Yanez volgendosi verso il conduttore. – Quattro uomini rimangano qui fuori a guardia.
Possiamo essere stati seguiti. —
Prese sotto braccio Sandokan, riattizzò la sigaretta e varcarono la soglia, inoltrandosi in un angusto corridoio, ingombro di rottami staccatisi dall’umida volta e che pareva s’addentrasse nelle viscere della colossale roccia.
Dopo aver percorsi cinquanta o sessanta metri, preceduti dagli uomini che portavano le torce e seguìti dagli altri, giungevano ad una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso, di forma circolare, nel cui centro s’ergevano, sopra una pietra rettangolare, di dimensioni enormi, le tre dee: Parvati, Latscimi e Sarassuadi, la prima, protettrice delle armi siccome dea della distruzione; la seconda, delle vetture, dei battelli e degli animali quale dea della ricchezza; la terza, dei libri e degl’istrumenti musicali come dea delle lingue e dell’armonia.
– Fermatevi qui, – disse Yanez a coloro che lo accompagnavano. – Tenete pronte le carabine: non si sa mai quello che può succedere. —
Prese una torcia e seguìto sempre da Sandokan entrò in un secondo corridoio, un po’ più stretto del primo e lo percorse finché fu giunto in una stanza, pure sotterranea, ammobigliata sontuosamente e illuminata da una bellissima lampada dorata che reggeva un globo di vetro giallastro.
Le pareti ed il pavimento erano coperti da fitte tappezzerie del Guzerate, scintillanti d’oro e rappresentanti per lo più belve strane, solo esistite nella fervida fantasia degli indù e all’intorno vi erano comodi e larghi divani di seta e mensolette di metallo sorreggenti dei fiaschi dorati e delle coppe.
Nel mezzo, una tavola con incrostazioni di madreperla e di scagliette di tartaruga che formavano dei bellissimi disegni, con intorno parecchie sedie di bambù.
Solo una parte della parete era scoperta, essendovi incastrato, in una vasta nicchia, un pastore colla faccia nera: era Quiscena, il distruttore dei re malvagi e crudeli, che formavano l’infelicità del popolo indiano.
Il ministro era stato deposto su uno di quei soffici divani e russava beatamente come se si trovasse nel suo letto.
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