Emilio Salgari - Il Bramino dell'Assam

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Emilio Salgari

IL BRAMINO DELL’ASSAM

CAPITOLO PRIMO: L’ASSASSINIO D’UN MINISTRO

«Signor Yanez, se non m’inganno, vengono, ed avremo una carica formidabile, spaventosa».

«Ah, briccone!… Quando sarà che ti deciderai a chiamarmi Altezza? Quando ti avrò fatto tagliare la punta della lingua dal carnefice del mio impero?» «Voi non lo farete mai».

«Ne sono più che convinto, mio bravo Kammamuri: per te io sono sempre il signor Yanez o la Tigre Bianca, come Sandokan per te è sempre la Tigre della Malesia». «Due grandi uomini, signore!…»

«Che il diavolo ti porti! Qualche cosa, è vero, abbiamo fatto in Malesia ed in India, tanto per non lasciar irrugginire le nostre splendide carabine inglesi». «No, Altezza…»

«Olà, Kammamuri, ti proibisco di darmi questo titolo quando non siamo a corte; e mi pare, se non sono diventato cieco, che ci troviamo ora in mezzo ad una magnifica foresta, senza seccanti ministri, grandi marescialli di non si sa che cosa». «È un ordine che avete istituito voi, signor Yanez».

«Ora va bene. Ma vedi: a questi indiani bisogna dare grossi gradi e titoli rimbombanti. Marescialli dell’Assam!… Per Giove!… Hanno ragione di andare superbi, mentre sono più che convinto che nessuno di quei poltroni che vuotano le casse dello Stato, avrebbe osato prendere parte a questa caccia. Dicevi dunque, mio bravo Kammamuri?» «Che i bufali si avvicinano». «Hai gli orecchi ben fini, tu!…» «Sono indiano, signore, e sono nato cacciatore». «È vero; mentre io sono un europeo, figlio del gaio Portogallo, che non ha…» «Alto là, signore: avete ucciso più tigri voi di me».

«Non me lo ricordo» rispose colui che si faceva chiamare signor Yanez, ridendo. «Dunque, vengono?» «Ne sono sicurissimo». «Che siano molti?»

«Sapete bene, signor Yanez, che quei bestioni cornuti, forti quasi quanto i rinoceronti, vanno sempre a grosse bande». «È vero».

«Il carro è pesantissimo, signor Yanez, ed io spero che non riusciranno a sgangherarlo, né a sollevarlo».

«Io spero invece che vi si rompano le corna contro» rispose il signor Yanez, «M’inquieta l’elefante che il cornac non ha abbastanza allontanato, per poter assistere anche lui alla grossa caccia. Tutti bricconi quest’indiani». «Anche io, Altezza?»

«Per tutti i fulmini di Giove, smettila, Kammamuri!… Vuoi farmi andare in bestia proprio ora che ho bisogno di avere i nervi ed il sangue tranquilli?» «Ho finito, Altezza!…» «Che un thug ti strangoli, briccone! Tu vuoi farmi arrabbiare». «Ma no, signor Yanez».

«Ora ci siamo e non protesto. Ah, ti dicevo che avevo qualche inquietudine per Sahur. Se i bufali lo scoprono lo sventreranno, senza badare ai colpi di proboscide».

«Sahur è un coomareah e non già un merghee, signor Yanez. È massiccio come uno scoglio e forte come cento cateri».

«Cento giganti indiani? Avevano ben poca forza quei signori spaventapasseri!… Noi in Europa ne abbiamo avuti due soli, che si chiamavano Sansone ed Ercole, ma potevano accoppare anche con una semplice mascella d’asino cinquecento cateri, e forse… Oh!… Odo anch’io!… Per Giove!… Si direbbe che quei colossi rovesciano la foresta. Vedremo se saranno capaci di gettare in aria anche noi». Poi, alzando la voce, comandò con voce secca: «Preparate le carabine!… Fuoco di fila!…»

Un enorme carro, formato di travi pesanti collegate con arpioni di ferro e con ruote altissime, tutte piene, stava fermo, un po’ affondato nella terra grassa, in mezzo ad una superba foresta irta di giganteschi tara, di tamarindi, di cocchi e di mangifere.

Non somigliava affatto agli tciopaya indiani, grossi carri anche quelli, ma più eleganti, perché hanno la cassa sempre dipinta in azzurro color cielo ed ornata di fiori e di divinità, con belle colonnette. Sembrava più un bastione rotolante, che solamente la forza illimitata degli elefanti, specialmente dei coomareah, potevano smuovere.

I bufali non ci sarebbero riusciti nemmeno accoppiati sei a sei, nonostante il loro vigore tre volte superiore a quello dei tori e delle vacche d’Europa. Otto uomini montavano quella strana fortezza, che un vigoroso elefante aveva trascinato fino a quel luogo, per correre subito ad imboscarsi in mezzo ad un foltissimo gruppo di mangifere.

Quello che stava dinanzi a tutti e che si faceva chiamare Altezza, o signor Yanez, a suo piacere, era un bel tipo d’europeo, sui cinquantacinque anni, colla folta barba brizzolata e la pelle un po’ abbronzata pei lunghi soggiorni nelle regioni equatoriali. Non indossava affatto un vestito da principe indiano, carico di ricami d’oro.

Aveva un semplice vestito di flanella bianca, assai largo per non impedirgli nessun movimento, stretto solamente ai fianchi da un’alta fascia di seta azzurra sulla quale si vedeva spiccare un grosso S.

Entro quella specie di cintura erano due grossi pistoloni indiani, a canna lunga, armi che possono valere le moderne rivoltelle. Il secondo, che si ostinava a chiamarlo signor Yanez, era un purissimo tipo d’indiano, anche lui già sulla cinquantina, però coi capelli e la barbetta nerissimi. Piuttosto massiccio, di forme vigorose, però di lineamenti fini, nobili, quei lineamenti che si riscontrano nelle alte caste indiane che non hanno mai avuto alcun contatto coi paria.

Assai bruno, cogli occhi sempre in moto che gli davano un non so che di feroce, faceva tintinnare le sue grosse buccole d’oro e le numerose collane di perle che gli scendevano su una casacca tutta verde e ben ricamata, con molto sfarzo d’argento e d’oro.

Qualunque indiano lo avesse veduto, non avrebbe esitato un solo momento ad esclamare: «Ecco un superbo maharatto!…»

Gli altri sei, che stavano dietro al maharajah, non erano che degli sikkari, ossia dei cacciatori, molto valenti così nella jungla infestata di tigri, di pitoni enormi e di coccodrilli, come contro i colossi della foresta: come bufali, elefanti, rinoceronti.

Non avevano che dei calzoncini di tela rigata, niente sulle loro teste accuratamente rasate, però nella cintura di pelle gialla portavano un vero arsenale: pistoloni a doppia canna e tarwar per tagliare le lingue ai bufali.

Al comando dato dal maharajah, gli sikkari avevano armate precipitosamente le carabine, ed avevano occupato il davanti del carro.

Si mostravano perfettamente tranquilli, quantunque non ignorassero con quale formidabile nemico avessero da fare. «Si avvicinano, è vero, mio bravo Kammamuri?» chiese il signor Yanez.

«Sì, Altezza» rispose il maharatto, imbracciando rapidamente una grossa carabina.

«Olà!… Smettila, noioso!… Qui non vi sono né ministri, né grandi marescialli. Vuoi guastarmi il sangue? Se lo hai giurato, come ti ho detto, ti farò tagliare la punta della lingua dal grande carnefice del mio impero».

«Ed infatti ci vorrebbe un po’ di lavoro per quel furfante: quanto lo pagate?…»

«Mille rupie all’anno per non fare niente, giacché io sono un principe umanitario. E poi Surama non vorrebbe che facessi tagliare il collo a qualcuno dei suoi sudditi». «Hum!… Sudditi malfidi, signor Yanez».

«Lo so meglio di te, mio bravo Kammamuri» rispose il portoghese. «Finché si può andare avanti filiamo a tutto vapore. Scateneremo, all’ultimo momento, i montanari di Sadhja. Quelli sono veramente devoti alla rhani, e per conservarle il trono minato da un tarlo misterioso, sarebbero capaci di gettarsi anche sul Bengala». «Se avessero un po’ di Tigrotti di Mòmpracem alla testa!» «Ci saranno». «Come? Noi rivedremo ancora qui quei terribili guerrieri delle folte foreste?»

«Non stupirti, Kammamuri, è un po’ che ci penso. Ho nominato un brav’uomo mio primo ministro e me l’hanno misteriosamente avvelenato; ne ho nominato un altro, e nel suo letto si è trovato un serpente del minuto che l’ha portato via, al primo morso, entro cinquantacinque secondi esatti. Domani cacceranno fra le mie coltri un cobra-capello, o fra le lenzuola di seta di Surama e del mio Soarez. Morte di Giove!… Se uccidessero mia moglie e mio figlio…» Si era interrotto bruscamente, gridando per la seconda volta: «Preparate le carabine!… Fuoco di fila!…»

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