Emilio Salgari - Il Bramino dell'Assam
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Si arrestarono un momento sul margine della radura in mezzo alla quale si trovava il carro, muggendo furiosamente. Grondavano sudore e la schiuma imbrattava i loro larghi petti, scendendo a terra, come tanti piccoli fili d’argento.
Dovevano essere esausti. Il cavallo li aveva certamente trascinati in una corsa velocissima, sfuggendo anche al loro attacco, perché dalle corna delle bestie non pendeva nessun intestino. I loro fianchi pulsavano fortemente ed i loro occhi erano iniettati di sangue in modo da fare spavento.
«Giù!…» comandò Yanez, che cominciava ad averne abbastanza dell’ostinazione di quegli animali.
Otto colpi partono, uno dietro all’altro, ed una pioggia di palle coniche, rivestite di rame, colpisce nuovamente in pieno i giganti delle jungle. Tre o quattro cadono, colle spine dorsali fracassate, poiché i cacciatori non miravano né alla testa, né al petto, ma gli altri, sempre più inferociti, si scagliano come una tromba, colle corna ben tese, decisi a non rientrare nella boscaglia senza aver vendicati i compagni. Il momento è terribile. Il carro è pesantissimo ed assai robusto, tuttavia anche Yanez è diventato un po’ pallido. «Non lasciamoli avvicinare!…» gridò. «Fuoco!… Fuoco!… Fuoco!…»
CAPITOLO SECONDO: IL VELENO DEL BIS COBRA
Sparavano gli sikkari, freddamente, da vecchi cacciatori, lanciando le loro palle coniche in tutte le direzioni, poiché l’attacco era diventato avvolgente, ma i terribili animali invasati dal demonio della vendetta, non avevano interrotto il loro spaventoso attacco. Tre volte passarono a corsa sfrenata intorno al carro, lasciandosi sempre dietro dei morti o dei moribondi, poiché Yanez e Kammamuri, vecchi cacciatori, non mancavano mai ai loro colpi. Erano ancora in quaranta, e forse anche più, e tutti di mole enorme. Il loro urto fu così formidabile che il carro, malgrado il suo peso, e quantunque avesse le alte ruote affondate nel molle terreno della foresta, indietreggiò con un rombo spaventevole. Per un momento Yanez ed i suoi compagni provarono la sensazione di una violentissima scossa di terremoto e temettero che tutto andasse all’aria ma le grosse travi, bene unite da arpioni di ferro, tennero fermo. I bufali, sempre più rabbiosi, si accanivano raddoppiando le cariche con una violenza forse mai veduta. Alcuni si erano spezzate le corna, altri erano rimasti come appesi ed erano stati subito finiti colle lunghe pistole indiane, armi magnifiche che valgono meglio di tutte le rivoltelle del nuovo e del vecchio mondo.
I colpi si susseguivano ai colpi, i lampi ai lampi, il fumo al fumo. Due sikkari ricaricavano senza posa le armi che passavano poi a Yanez ed ai suoi compagni, i quali conservavano un meraviglioso sangue freddo, quantunque il grosso carro subisse un vero rollio, come se fosse diventato una nave perduta entro qualche grande tempesta. Già dieci o dodici bufali giacevano al suolo, alcuni fulminati, altri gravemente feriti da quelle palle rivestite di rame, quando un barrito formidabile echeggiò sul margine della radura.
«Per Giove!…» esclamò Yanez, fulminando con una pistolettata un vecchio toro che aveva piantate le sue corna così profondamente entro le travi, da non potersi più ritrarre. «È diventato pazzo quel bestione? O le sue budella gli pesano dentro il gran ventre? Che cosa fa il cornac? Per Giove!… Non ce la caveremo più se anche l’elefante si fa sventrare. Chi tirerà questa fortezza fino alla capitale?»
Parlava, ma sparava, adoperando ora le grosse carabine da caccia ed ora le pistole, malmenando orribilmente i testardi delle jungle.
«No, signor Yanez» disse Kammamuri, alzando la carabina fumante colla quale aveva atterrato un altro bufalo. «Sahur per la seconda volta accorre in nostro aiuto. Ah!… Quanta intelligenza hanno i nostri elefanti!… Guardate: il cornac lo guida come se fosse un agnellino».
Sahur usciva in quel momento dalla macchia, però non pareva affatto che fosse un agnellino. Caricava anche lui, colla tromba in aria, le zanne tese, lanciando una vera fanfara di guerra.
Il suo cornac, ormai completamente tranquillo sulle intenzioni del colosso, non faceva nemmeno uso dell’arpione. Lo eccitava invece con dolci parole, chiamandolo forte dei forti, sterminatore di tutte le tigri, potente dei potenti. Il bravo elefante, sensibile a quelle lodi, conscio d’altronde della propria forza, rovinò a sua volta in mezzo ai bufali menando terribili colpi di proboscide.
Parevano cannonate. I bufali cadevano coi crani sfracellati o colle costole ed i polmoni sfondati. Lavoravano le carabine e le pistole, ma lavorava meglio il bravo e coraggioso elefante.
Agile, malgrado le sue forme massiccie, sfuggiva agli assalti fulminei dei bufali, che riceveva o sulla sua potente proboscide o sulle sue zanne. Il cornac lo eccitava sempre.
«Va’, figlio di Visnù!… Va’, terrore delle jungle!… Stermina, distruggi per la salvezza dei tuoi padroni!…»
E l’elefante alle cariche dei bufali rispondeva con altrettante cariche, gettandone sempre in aria parecchi, che poi calpestava rabbiosamente sotto le larghe zampe, facendo crocchiare le ossa.
«Fulmini di Giove!…» esclamò Yanez, che aveva appena allora sparato due colpi di pistola. «Questo elefante è veramente meraviglioso!… Sotto, Sahur!…»
Il pachiderma, come se avesse conosciuta la voce del suo signore, si scagliò proprio in mezzo ai bufali che si accanivano intorno al carro, senza grande successo, menando la tromba con vigore estremo. Fracassava costole, spezzava gobbe, sfondava teste, servendosi anche, di quando in quando delle sue lunghissime ben affilate zanne per inchiodare al suolo qualche avversario che minacciava di piantargli le corna nel ventre.
«Forza, Sahur!…» gridava il cornac, tenendosi dietro le enormi orecchie del bestione. «Uccidi! Distruggi come Brahma, Siva e Visnù!… Guàrdati dalle corna, mio piccolo pavone, e nient’altro!…»
L’elefante, incoraggiato anche dalle grida degli sikkari che ben conosceva, ed inebriato un po’ dall’odor della polvere, poiché il fuoco continuava dal carro, facendo dei grandi vuoti fra gli assalitori, aumentava la sua collera.
Caricava e ricaricava alla disperata, menando sempre la proboscide, la quale cadeva sulle robuste spalle dei bufali col fragore di tanti colpi di spingarda. Più che decimati dal fuoco delle carabine e delle lunghe pistole e dai colpi di tromba, i testardi figli delle umide jungle, dopo d’aver tentato ancora una carica disperata, volsero le groppe e fuggirono rientrando nella foresta. Quindici o sedici di loro erano rimasti sul terreno. Tre o quattro altri stavano spirando, muggendo disperatamente e tirando calci.
«Finalmente!…» esclamò Yanez, dopo d’aver sparato un ultimo colpo di carabina sulla banda fuggente ed ormai completamente disorganizzata. «Abbiamo consumato delle belle munizioni per dare da mangiare alle tigri ed agli sciacalli».
«Come, signore?» chiese Kammamuri. «Non farete togliere almeno le lingue ai morti? Sapete bene quanto sono squisite». «Ho fretta di tornare alla capitale».
«Almeno un po’ di lingue per mostrare che noi abbiamo ucciso veramente di questi bufali che fanno tanta paura ai più audaci cacciatori».
«Ti accordo un quarto d’ora, il tempo necessario per aggiogare Sahur al carro. Prendi gli sikkari e fa’ presto».
I sette uomini balzarono a terra, armati di scuri e di coltelli, mentre Yanez offriva all’elefante una manata di pezzi di zucchero.
«Sai, cornac», disse «che abbiamo un elefante meraviglioso? Non credevo che questo coomareah fosse capace di caricare dei bisonti. Un merghee vi si sarebbe certamente rifiutato».
«Lo credo anch’io, Altezza» rispose l’indiano, accarezzando il bestione, al quale Yanez continuava ad offrire zucchero e delle pagnotte col burro. «Per me è il migliore che possediamo». «Basta, attacca e torniamo subito alla capitale. Ho molta fretta, cornac». «Sahur, se troverà posto correrà come un cavallo». «A terra allora, e prima esamina le catene poiché il carro è pesantissimo». «Fra cinque minuti noi saremo in viaggio, Altezza».
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