Emilio Salgari - Il Bramino dell'Assam

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Quantunque regnasse una calma assolutamente completa, la foresta che si stendeva dinanzi al gigantesco carro, si era messa ad agitarsi come se dei colpi di vento la investissero. Tutte le piante, eccetto i grossi tara, inattaccabili anche per gli elefanti più poderosi, si agitavano violentemente, sbattendo le immense foglie e facendo cadere una vera grandine di frutta. Pareva che sotto i grandi vegetali, piuttosto che sopra, si avanzasse furibondo un uragano, accompagnato da strani fragori che non erano altro che muggiti di bhajusa, i formidabili bisonti indiani, ben più audaci di quelli che un tempo popolavano le praterie del Far-West americano. Sono animali di dimensioni straordinarie, massicci quasi quanto i rinoceronti, cattivissimi, specialmente se vengono feriti.

Non somigliano veramente al bisonte americano, né al bufalo selvaggio dell’Africa, forse agli uri, razza ormai scomparsa dalle foreste della Germania e della Polonia, da una buona cinquantina d’anni. Hanno la testa corta e piuttosto quadrata, la fronte alta e larga, coronata di ciocche di pelo lungo, rossiccio, le corna ovali fortemente appiattite che incurvansi indietro per rialzarsi poi a punta. Il collo è grosso e breve, che si attacca subito ad una vera gobba che si stende fino a metà lunghezza dei loro corpi, e che perciò li fanno rassomigliare un po’ ai bisonti delle praterie americane. Tutta quella gobba è coperta d’un pelame nero spesso e lungo; le altre parti sono invece coperte di peli di color marrone e sono meno folti.

Se vi è un animale terribile è indubbiamente il bufalo indiano. Mentre i bisonti americani fuggono quasi sempre e si lasciano massacrare a centinaia, quelli indiani, quantunque abbiano una vista piuttosto cattiva, ma un odorato ed udito finissimi, vendono ferocemente la loro pelle. Già vanno sempre in grossi gruppi di quaranta, cinquanta ed anche più capi, quindi possono condurre delle cariche formidabili anche perché, malgrado la loro mole, sono agilissimi e corrono meglio dei bisonti gareggiando perfino coi cavalli. Sono sempre di pessimo umore, pronti a sventrare il povero indiano che incontrano sul loro passaggio e che non ha avuto il tempo di mettersi in salvo su qualche albero dai rami bassi.

Producono delle ferite spaventevoli, e più volte si sono trovati, nelle foreste indiane, dei disgraziati col ventre aperto fino alla bocca dello stomaco, con un colpo reciso. Perfino le tigri si guardano, anche se assai affamate, di assalire di fronte quei pericolosi bestioni, e ben di rado riescono ad abbatterne qualcuno.

Quello che rende il bufalo assolutamente terrificante è la loro forza prodigiosa, la quale dà loro una superiorità immensa sull’uomo che abita quelle regioni, pel fatto che anche attraverso le più folte foreste si apre il passo senza sforzo apparente, mentre i più destri cacciatori non potrebbero andare innanzi che con somma lentezza.

La malignità poi dei bufali, siano africani od asiatici e talvolta anche americani, è incredibile. Perseguitano il cacciatore con una ostinazione incredibile, facendo degli improvvisi ritorni dietro le macchie, per prenderlo di fronte e sventrarlo, gettarlo in aria e calpestarlo rabbiosamente.

Il signor Yanez non era alle sue prime cacce. Conosceva i “grossi polli della foresta”, come li chiamava lui, ed aveva prese le sue precauzioni, facendosi costruire un carro monumentale che nemmeno i fortissimi elefanti, in una delle loro cariche spaventevoli, potevano fracassare.

Aveva per di più il maharatto, cacciatore nato, e sei sikkari dal polso fermo e niente affatto impressionabili.

I bisonti, fiutati forse i nemici, continuavano a caricare attraverso alla foresta, sventrando i cespugli e facendo oscillare gli alberi. Muggivano furiosamente, come se fossero impazienti d’impegnare la lotta.

«Siete pronti?» chiese Yanez, il quale tendeva gli orecchi ed aguzzava gli occhi. «Tutti, Altezza» risposero i sette uomini, imbracciando le carabine.

«Per Giove!… Voglio vedere la danza dei bisonti. È un po’ di tempo che non ne uccido, ma giacché vengono a devastare le mie selve e sventrare i miei sudditi, faremo anche noi dei massacri. Olà!… Attenzione!… Giungono!…»

La banda irrompeva colla violenza d’una vera tromba. Erano cinquanta o sessanta enormi animali, quasi tutti maschi, i quali caricavano a testa bassa, colle corna tese.

«Fanno veramente paura!» disse Yanez colla sua solita voce tranquilla. «Mi spiace che non vi sia qui Tremal-Naik.»

«Veglia su vostro figlio, sul piccolo Soarez» ebbe appena il tempo di dire il maharatto.

Una scarica echeggiò subito, scarica secca, terribile. I bisonti, impressionati dal fragore delle armi, si erano subito arrestati dinanzi a due loro compagni che non davano più segno di vita, mentre un terzo si dibatteva disperatamente fra le ultime convulsioni dell’agonia, emettendo formidabili muggiti. «Le carabine di ricambio!…» gridò prontamente Yanez. Tutti si erano prontamente riarmati, e si erano messi in posizione di sparare. I bufali ebbero un momento di esitazione, ma il loro straordinario coraggio si risvegliò ben presto, e si slanciarono dritti contro il carro colla speranza di fracassarlo a gran colpi di corna, o per lo meno di rovesciarlo. «Fuoco!…» comandò per la seconda volta Yanez.

Altri otto spari rimbombarono, formando quasi una detonazione sola e rompendo violentemente l’eco della foresta. Tre animali caddero morti o feriti, tuttavia gli altri continuarono la indemoniata carica, muggendo spaventosamente, e si precipitarono all’attacco. Stavano quasi per investire il carro, quando da una folta macchia irruppe, correndo e barrendo, un grosso elefante montato da un cornac indiano, quasi nudo.

«Sahur!…» gridò Kammamuri, riprendendo un’altra carabina di ricambio, poiché ne avevano ancora. «Che cosa viene a fare qui quello stupido? A farsi sbudellare?»

«Ci siamo anche noi, pronti a proteggerlo» disse Yanez. «Vediamo un po’ che cosa succede. Per l’elefante non m’importa, poiché nelle mie riserve ne abbiamo perfino troppi; è per quel povero diavolo di cornac il quale corre il pericolo, se non riesce a domare Sahur, di vedere le budella pendenti sulla punta di qualche corno. Non fate fuoco per ora. Uno di voi ricarichi le armi».

L’elefante, impressionato dai muggiti veramente spaventosi dei bufali, aveva lasciato il suo nascondiglio, gettandosi storditamente in mezzo a tutte quelle corna.

È vero che si trattava di un poderoso coomareah, saldo quanto uno scoglio, dotato d’una forza più che prodigiosa ed armato d’una tromba larga che doveva fare dei veri miracoli nel caso di un attacco diretto. Il cornac, armato dell’arpione, invano si sforzava di ricondurlo nelle folte macchie. Il testardo suonava la sua fanfara di guerra, preparandosi anche lui a slanciarsi.

«Per Giove!…» esclamò Yanez. «Ha del coraggio quel bestione!… Che venga proprio per proteggerci?»

«Non mi stupirei» rispose Kammamuri. «Sahur ha una intelligenza meravigliosa. «Tenetevi sempre pronti a far fuoco».

I bufali, per la seconda volta si erano arrestati, calpestando rabbiosamente il suolo e scuotendo forsennatamente le loro grosse teste. Pareva che esitassero fra l’assalire il carro o l’elefante, il quale si avanzava sempre trombettando a pieni polmoni.

Finalmente parvero decidersi. Dovevano aver riconosciuto che era più facile atterrare il pachiderma piuttosto che il gigantesco carro, il quale presentava la resistenza d’un piccolo bastione. Si allargarono, formando un semicerchio di oltre cento metri, poi tornarono a muoversi, mirando all’elefante. Stavano per attaccare a fondo, quando un nitrito echeggiò improvvisamente a poche centinaia di passi dal carro.

«Un cavallo!…» esclamò Yanez, diventando leggermente pallido. «Che nella mia capitale sia scoppiata la rivoluzione? Sono tutte cariche le carabine?»

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