Emilio Salgari - La riconquista di Monpracem

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Emilio Salgari

LA RICONQUISTA DI MOMPRACEM

1. L’abbordaggio dei malesi

Quella notte tutto il mare che si stende lungo le coste occidentali del Borneo era d’argento.

La luna che saliva in cielo col suo corteo di stelle, attraverso una purissima atmosfera, versava torrenti di luce azzurrina d’una dolcezza infinita.

I naviganti non potevano sperare una notte migliore, poiché anche il mare era calmissimo e solamente una fresca brezza, impregnata de’ mille profumi di quell’isola meravigliosa, lo faceva appena appena increspare.

Una gran nave a vapore che veniva dal settentrione scivolava dolcemente fra il banco di Saracen e l’isola di Mangalum, fumando allegramente.

Sulla sua scia nottiluche e meduse salivano rendendo più viva la luminosità delle acque.

Vi era festa quella sera a bordo, poiché il salone centrale era tutto illuminato.

Un pianoforte sonava un waltzer di Strauss, mentre la voce robusta d’un tenore vibrava, lanciandosi attraverso gli sportelli aperti ed espandendosi lontano sul mare d’argento.

Ad un tratto un grido si alza a prora.

– Stop in macchina!

Il capitano che era salito sul ponte per fumare liberamente una pipata di acre tabacco inglese, appena udito quel comando si precipitò giù dalla passarella e gridò:

– Good God! chi ferma la mia nave?

– Sono io, capitano, – disse un marinaio avanzandosi.

– Con qual diritto? Comando io qui!

– Perché abbiamo dinanzi a noi una flottiglia di pescatori malesi, giunta non so come, e quella flottiglia è ben grossa.

– Se non ci lasceranno il posto, passeremo sui loro maledetti prahos e manderemo in fondo al mare tutti quei vermi che li montano.

– E se fossero invece pirati, signore? Non è la prima volta che assaltano anche i piroscafi.

– Corpo d’un tuono! Vediamo! —

Il capitano salì sul castello di prora, dove già si trovava l’ufficiale di rotta e guardò nella direzione che il marinaio gl’indicava.

Venticinque o trenta grossi prahos, colle loro immense vele variopinte sciolte al vento, s’avanzavano lentamente contro il piroscafo, coll’evidente intenzione di tagliare il passo.

Dietro quella flottiglia poi, una piccola nave a vapore che pareva uno yacht bordeggiava per non sopravvanzare i velieri, lanciando attraverso la luce lunare una colonna di fumo nerissimo misto a scorie scintillanti.

– Corpo d’un tuono! – gridò il capitano. – Che cosa vogliono quei velieri? Non mi pare affatto che peschino. —

Si volse verso l’ufficiale di quarto che aspettava i suoi ordini e gli disse:

– Signor Walter, fate caricare il cannone di prora con della buona mitraglia e rallentare la corsa.

– Chi credete che siano, comandante?

– Io non lo so; ma so che navighiamo in mari battuti dai pirati bornesi e malesi.

Non dite nulla a nessuno non voglio guastare la festa organizzata in onore di S. M. la Graziosa Vittoria. —

L’ufficiale diede rapidamente gli ordini ricevuti ai marinai di quarto, che si erano radunati sul castello di prora non poco impressionati dall’avvicinarsi di quella misteriosa flottiglia.

La marcia del piroscafo si era subito rallentata, ma i passeggeri non si erano accorti di nulla, poiché il tenore accompagnava al piano un altro waltzer di Strauss, Sangue Viennese.

Quattro uomini, guidati dall’armaiuolo di bordo, smascherarono rapidamente il cannone celato sotto un grosso incerato e si misero a caricarlo.

I prahos intanto continuavano la loro marcia con un insieme meraviglioso, approfittando della brezza che soffiava dal sud.

Il piccolo battello a vapore li scortava sempre, girando pei due fianchi della doppia colonna.

Non vi era ormai più alcun dubbio: erano pirati ferocissimi che movevano all’abbordaggio del piroscafo.

Se fossero stati dei pescatori, vedendo avanzarsi la nave a vapore, non avrebbero tardato a dividersi per non perdere le loro reti.

Il capitano e l’ufficiale di quarto si erano messi in vedetta, mentre un quartiermastro distribuiva in fretta fucili e munizioni e faceva salire in coperta la guardia franca per prestare man forte nel caso di un attacco.

– Signor Walter, che cosa ne pensate di tutto ciò? – chiese il capitano, il quale appariva assai preoccupato.

– Temo che quelle canaglie vengano a guastare la festa.

– Abbiamo delle armi.

– Ma quella flottiglia è dieci volte più numerosa di noi. Voi sapete come sono armati i prahos da corsa.

– Sì, lo so purtroppo! – rispose il capitano.

La flottiglia in quel momento si trovava a soli cinquecento metri dal piroscafo.

Con una rapida manovra aprì le due linee e lasciò il passo allo yacht a vapore, il quale si spinse audacemente innanzi.

Trascorse qualche minuto, poi una voce poderosa, che coprì quella del tenore, s’alzò sul mare gridando minacciosamente:

– Stop in macchina! —

Il capitano aveva imboccato un portavoce ed aveva prontamente chiesto:

– Chi siete voi e che cosa volete da noi?

– Divertirci a bordo della vostra nave.

– Avete detto?

– Che questa sera mi sento in grado di ballare un waltzer.

– Fate aprire le file o faccio fuoco!

– Accomodatevi – rispose la misteriosa voce con un po’ d’ironia.

La sirena dello yacht aveva fatto udire il suo urlo. Era certamente un comando, poiché i trenta prahos in un baleno si disposero su due colonne e mossero velocemente e risolutamente contro la nave, la quale si era fermata.

– Belt, tira un colpo di cannone su quei vermi! – gridò il capitano.

L’armaiuolo fece tremare il pezzo con un rombo che si ripercosse anche nel salone centrale, dove i passeggeri si divertivano.

La risposta fu fulminea.

Sei prahos avevano scaricate le loro grosse spingarde, facendo scrosciare la mitraglia sulle lastre metalliche della nave, mentre altre sei scagliavano in coperta una tempesta di chiodi, ma ad un’altezza da non poter colpire gli uomini.

Quasi subito un lampo balenò sulla prora dello yacht e l’albero di trinchetto, spaccato sopra la coffa con matematica precisione, cadde in coperta con grande fracasso.

I passeggeri atterriti avevano interrotta la festa e tentato d’invadere il ponte; ma l’ufficiale di quarto, appoggiato da otto marinai armati di carabine e di sciabole d’arrembaggio, aveva chiuso inesorabilmente il passo così agli uomini come alle signore, dicendo:

– Nulla, nulla: sono affari che riguardano gli uomini di mare. —

Per la seconda volta la voce poderosa echeggiò sulla prora dello yacht:

– Arrendetevi o scateno tutte le mie artiglierie. Voi non potrete resistere nemmeno dieci minuti.

– Canaglia! che cosa vuoi da noi? – gridò il capitano, furioso.

– Ve l’ho già detto: divertirmi a bordo della vostra nave e null’altro.

– E saccheggiarci?

– Ah, no! Ve ne do la mia parola d’onore.

– La parola d’un bandito.

– Oh, signor mio, non sapete ancora chi io sia. Fate calare subito la scala e date ordine che si riprenda la festa. Vi accordo un solo minuto. —

La resistenza era impossibile.

Quei trenta prahos dovevano disporre di almeno sessanta spingarde e portare equipaggi numerosi ed agguerriti negli abbordaggi.

Per di più vi era l’artiglieria dello yacht, artiglieria grossa senza dubbio, capace di aprire delle falle a fior d’acqua ed affondare il vapore in meno di cinque minuti.

– Giù la scala! – comandò subito il capitano, vedendosi ormai perduto.

Lo yacht, una splendida nave a vapore di trecento tonnellate, armata di due grossi pezzi da caccia, s’avanzò fra i prahos e venne ad ormeggiarsi sul tribordo del piroscafo, proprio sotto la scala.

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