Emilio Salgari - La riconquista di Monpracem

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– Tu conosci la città, Mati?

– Come il vostro yacht, padrone.

– Io ti apro un credito illimitato, affinché tu mi acquisti prima di questa sera qualche palazzotto, ove possa dare delle feste e dei ricevimenti.

– M’incarico io, padrone.

– Allora possiamo far colazione – concluse Yanez.

Due barche, cariche di frutta d’ogni specie: banane, noci di cocco, durion, mangostani ecc. erano in quel momento giunte.

Venivano da parte del Sultano, al quale premeva di tenersi caro l’ambasciatore del potente leopardo inglese.

Stavano per allontanarsi, dopo d’aver scaricato, quando un grido colpì i remiganti.

– Help! Help! —

Le due imbarcazioni si erano fermate, e i battellieri guardavano verso i sabordi di poppa. Yanez che aveva pure udito quel grido fece loro un cenno imperioso di allontanarsi.

– Per Giove! – esclamò il portoghese – Questo Sir William minaccia di darmi già dei grattacapi.

Bisogna che dia l’ordine d’ora in poi che nessuna scialuppa si avvicini alla mia nave. —

La tavola era stata preparata sul ponte sotto una tenda. Un buon cuoco indiano aveva preparata una colazione eccellente all’inglese.

Yanez, che non era mai privo di appetito, fece la sua parte d’onore al pasto; poi dopo d’aver sorbita una buona tazza di caffè, andò a sdraiarsi su un seggiolone a dondolo collocato sul castello di prora, in attesa del ritorno del segretario.

La magnifica baia di Varauni si svolgeva dinanzi ai suoi occhi nitidamente e così pure la città, essendo i vari quartieri costruiti in prossimità del mare.

Un gran numero di barche solcava le acque, montate da malesi, da dayachi, da bornesi e da cinesi, i quali si recavano a sbarcare le merci di numerosi velieri schierati in buon ordine di fronte alla città.

Di quando in quando qualche grossa e massiccia giunca cinese, dalla prora quadra e la velatura a stuoie, usciva verso il largo accompagnata da non pochi prahos i quali spiccavano magnificamente, colle loro vele variopinte, sul luminoso orizzonte.

Gli equipaggi cantavano allegramente, lanciando delle note poderose che sfondavano gli orecchi, lieti di tornarsene al mare.

La baia di Varauni non era ormai più quella di una volta.

Nella sua profonda insenatura i pirati si erano radunati in buon numero per dare la caccia ai velieri che passavano al largo o che tentavano di entrare in relazioni amichevoli.

Si ricordano ancora le stragi orrende commesse da quei formidabili predoni del mare che non avevano per capo un Sandokan per frenarli.

Nel 1769 il capitano inglese Padler aveva tentato di ottenere un sicuro asilo dentro la baia, infuriando al di fuori una tempesta spaventevole.

La sera stessa tutto l’equipaggio, compresi gli ufficiali, veniva trucidato a colpi di parangs e di kriss.

Nel 1788 era stata purtroppo la volta d’un altro comandante inglese. Ancoratosi nella baia, vi era stato assalito da centinaia di prahos.

Malgrado la disperata difesa dell’equipaggio, nessun marinaio era stato risparmiato da quei sanguinari predoni.

Nel 1800 fu al capitano Panien che toccò egual sorte. La strage fu completa, e la nave data alle fiamme per levarle le ferramenta e le lastre di rame, e formarne chiodi atti a caricare le loro spingarde.

Fra il 1806, il 1811 e il 1814 la pirateria ebbe un terribile risveglio.

Le navi che entravano nel porto venivano prese d’assalto con ferocia inaudita e poi arse.

Ma una delle più grosse che fecero quei malandrini è la seguente. L’Inghilterra fino dal 1734 aveva stabilita una colonia all’estremità dell’isola di Balembang.

I pirati malesi vi piombano sopra e distruggono ogni cosa, aiutati dai sululiani.

Ben pochi coloni furono quelli che ebbero il tempo di salvarsi a Pulo-Condor, un’isola mezza francese e mezza cinese, che si faceva ancora temere.

Nel 1809 gli scorridori del mare, furibondi di vedere la colonia ristabilita, piombano ancora su Balembang, trucidando inesorabilmente uomini, donne e fanciulli.

Quasi nello stesso tempo un maggiore olandese, certo Maller, che esplorava l’interno del Borneo, veniva barbaramente assassinato dai cacciatori di teste fra le impenetrabili boscaglie di quella grande terra.

La pazienza dell’Inghilterra e dell’Olanda, che aveva fiorenti colonie lungo le coste meridionali ed occidentali dell’isola, era esaurita.

Era tempo di mettervi rimedio.

Le cannoniere vecchie e scarse di velocità incaricate d’impedire la pirateria, giungevano troppo tardi per sorprendere gli agilissimi prahos malesi che filavano col vento.

La finissima diplomazia inglese, d’accordo col governo dell’Aja, aveva avuto, come sempre, un tratto di genio.

Giacché i pirati si professavano, a loro modo, mussulmani convinti, manda a prendere a Mascate un non si sa se vero discendente degli imani o se falso, e lo scaraventa fra quelle tribù di malandrini, col suo bravo turbante verde sul capo, come uno stretto parente del grande Maometto.

Pare impossibile, il Corano fa più effetto dei pezzi delle cannoniere inglesi ed olandesi!

Alla foce del cristallino Varauni, che scende dalle montagne dell’interno, si costruisce una città per ospitare degnamente il figlio del turbante verde, reduce dalla Mecca, che probabilmente non aveva mai veduta.

L’apparenza aveva salvato capra e cavoli. Il primo sultano, sapendo di aver per sudditi dei pirati impenitenti, dapprima aveva tollerato certe scorrerie.

L’impiccagione dell’equipaggio di un praho, che aveva assalito uno yacht di piacere nelle acque di Mangalum, aveva prodotto su quei feroci scorridori una certa impressione.

Il veliero era entrato in porto con grappoli di appiccati, pendenti dai pennoni.

Vi era stata una sosta, ma durata pochissimo. La razza malese è prolifica come i vermi; non coltiva le sue terre d’una fertilità meravigliosa e preferisce montare all’abbordaggio.

Le distruzioni dei velieri continuarono negli anni seguenti, finché il figlio del Sultano, appoggiato dalle cannoniere di Labuan e di Pontianak, aveva posto rimedio ad uno stato di cose intollerabile, che poteva attirargli addosso i fulmini di quelle nazioni europee che avevano laggiù delle colonie.

La punizione era stata terribile. Il figlio del Sultano, sentendosi appoggiato dalle artiglierie degli uomini bianchi, un brutto giorno aveva fatto entrare nella baia una mezza dozzina di velieri pieni di appiccati.

La terribile azione servì.

A poco a poco la pirateria scomparve, tranne che al nord della grande isola bornese, dove i sultanelli si tenevano annidati in fondo alle loro profonde baie coperte di banchi di sabbia che rendevano inaccessibile l’entrata alle cannoniere.

Ad ogni modo quel tratto di energia di Selim-Bargasci-Amparlang, il quale aveva creduto bene di aggiungere un nome malese al suo mussulmano, aveva dato maggiori frutti di prima.

Gli abbordaggi erano cessati e pochissimi se ne contavano nel 1848, quando fu conquistato Labuan da parte degl’inglesi, sempre ferocemente invadenti.

Varauni, come tanti altri porti della Malesia, era diventato un asilo sicuro ai velieri che giungevano dall’Indocina o da Canton o da Calcutta.

Ma quella calma poteva essere più apparente che reale, poiché il malese non può vivere senza montare all’abbordaggio.

La polvere e il lampo dell’acciaio lo inebriano; le grida di guerra e di morte lo entusiasmano al massimo grado.

Un uomo di grande volontà come Yanez avrebbe potuto scatenare un uragano e mettere Varauni a ferro ed a fuoco…

Il cronometro di bordo segnava due ore meno dieci minuti, quando il gigantesco Mati fece la sua comparsa a bordo.

– Dunque? – chiese Yanez.

– Tutto combinato, signore: vi ho preso in affitto una palazzina che somiglia al palazzo del Sultano, ammobiliata tutta in stile cinese.

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