Emilio Salgari - Le stragi delle Filipine

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– E chi tenterà il colpo?

– Hang-Tu.

– Per uccidere tutti gli spagnuoli di Manilla?… Disgraziato! Mi ucciderà Teresita!…

– Lui!… No, mio signore.

– Se non lui i suoi malesi ed i suoi chinesi od i tagali. Quando quegli uomini sono scatenati, diventano tigri assetate di sangue al pari dei juramentados e non risparmiano né donne, né fanciulli.

– Hang-Tu la proteggerà, – disse Than-Kiú, ma con voce sorda.

– Voglio tornare a Manilla.

– Volevo proportelo, quantunque il mio cuore si ribelli.

– Perché, Than-Kiú?…

La giovane chinese fece un gesto negativo col capo, poi riprese con voce lenta:

– Ciò riguarda il Fiore della Perle e non la Perla di Manilla.

– Che cosa vuoi dire, strana fanciulla?

– Partiamo, mio signore, Hang-Tu ignora che gli spagnuoli, avvertiti del colpo di mano da qualche traditore, accorrono in aiuto della capitale. Se non se ne accorgeranno, tutti quei prodi saranno schiacciati ed io non voglio che Hang muoia.

– Lo ami forse?

– Sí… ma come un fratello.

Poi, dopo un sospiro, aggiunse con voce triste:

– Tu non comprenderai forse mai il Fiore delle Perle.

Uscí rapidamente dalla capanna senza spiegarsi di piú, salí sul cavallo che il negrito teneva per la briglia e lo lanciò ventre a terra attraverso il bosco, gridando:

– Seguitemi o sarà troppo tardi!

Romero ed i malesi balzarono in arcione e si lanciarono sulle sue tracce, spronando i corsieri.

Than-Kiú galoppava sempre, ma non teneva una via dritta. Ora abbandonava il bosco spingendo il cavallo in mezzo alla campagna coltivata, ora vi rientrava per poi uscirne di nuovo. Forse sapeva ormai dove si erano accampati gli spagnuoli e con quei giri li evitava per non venire arrestata.

Tre ore dopo i quattro cavalieri giungevano a poche centinaia di passi dalle massicce mura della Ciudad.

Than-Kiú, aveva con una violenta strappata, arrestato il destriero. Alcuni spari erano echeggiati al di là dei bastioni, seguiti dalle grida furiose di:

– Viva i tagalos!… Morte agli spagnuoli!…

La giovane era diventata pallidissima, come se tutto il sangue le fosse ritornato al cuore.

– Troppo tardi? – chiese Romero, che l’aveva raggiunta.

– Sí, – rispose ella con voce soffocata, guardandolo fisso.

– Andiamo a morire coi fratelli, – disse il meticcio, con voce risoluta. – Avanti!… Viva la libertà!…

– Sí, andiamo a morire, – mormorò il Fiore delle Perle con un sospiro. – La mia felicità doveva avere le durata d’un fiore reciso dalla pianta!

Capitolo VII. LA CONGIURA DI MANILLA

Il colpo di mano ordito dalle società segrete chinesi, spalleggiate dagl’indigeni manillesi, dai meticci e dai fieri malesi, era stato tentato nel momento in cui Romero e Than-Kiú giungevano presso i bastioni della capitale.

Quell’ardita mossa aveva per iscopo, come aveva detto la giovane chinese, di impedire al generale Polavieja, comandante supremo delle truppe spagnuole operanti contro gl’insorti accampati al sud della capitale, di assalire Cavite che era il quartiere generale dell’insurrezione e la cui caduta poteva scoraggiare e avvilire le bande dei patriotti.

Hang-Tu, il valoroso chinese, era stato l’anima della congiura. Sapendo di poter contare sui gendarmi di razza indigena che anelavano l’istante di rivolgere le armi contro i loro superiori per gittarsi di poi nella campagna e raggiungere le bande insorte di Bulacan a di Cavite, nel pomeriggio del 25 febbraio 1897, aveva dato convegno ai congiurati nei dintorni della caserma, per poi rovesciarli nella vie della Ciudad, approfittando del momento in cui la popolazione bianca si trovava nelle sue abitazioni a digerire tranquillamente il pasto serale.

I ribelli non erano numerosi, ma bene armati e risoluti a tutto. Erano circa trecento, reclutati fra i piú robusti tagali di Binondo e Santa Cruz, e fra i piú arditi chinesi del porto; ma sapevano di poter contare sulla numerose colonie di gente di colore, abitanti nei sobborghi e soprattutto sui malesi, gente valorosa e indifferente alla morte.

Erano circa le 6, quando i congiurati, che fino allora si erano accontentati di passeggiare dinanzi al quartiere dei gendarmi tagalos non ostante l’intenso calore che regnava nelle vie della capitale, ad un segnale di Hang-Tu, che era allora giunto armato d’un fucile a retrocarica e di rivoltella, scortato da alcuni capi insorti delle società segrete del Lotus bianco e del Giglio d’acqua, si rovesciarono confusamente verso il grande fabbricato, urlando:

– Morte agli spagnuoli!… Viva la libertà!…

Hang-Tu, che li guidava, con un colpo di fucile aveva freddato la sentinella spagnuola, che si trovava dinanzi alla garretta, ancora prima che quel disgraziato soldato avesse avuto il tempo di dare l’allarme.

A quel primo sparo, altri ne tennero dietro, ma piú collo scopo d’intimorire la popolazione che di fare, almeno pel momento, della vittime.

I carabinieri tagalos, udendo quelle detonazioni, avevano dato di piglio alle armi e si erano affacciati alle finestre, gridando pure:

– Morte agli spagnuoli!… Viva l’indipendenza della isole!

Il tenente di picchetto Rodriguez, il solo ufficiale che in quel momento si trovava nel quartiere, si era slanciato verso la porta seguito da un sergente e da un caporale, spagnuoli, sperando di giungere in tempo per barricarla, ma una scarica li aveva stesi al suolo senza vita.

Il primo colpo era riuscito. I ribelli irruppero nella caserma saccheggiando il magazzino della armi e della munizioni e rinforzati dai carabinieri tagali che avevano abbracciata la loro causa, attraversarono correndo il ponte, urlando sempre:

– Morte agli spagnuoli!… Viva i tagalos!… Viva l’indipendenza!…

La loro mossa era stata cosí rapida, che nessuno aveva osato arrestarli.

Le guardie stesse del ponte erano fuggite precipitosamente al loro avvicinarsi, per non venire fatte inutilmente a pezzi.

Occorrevano delle armi per fornire gli abitanti dei quartieri chinesi, tagali e malesi, che ne erano quasi sprovvisti; ma Hang-Tu sapeva che ve ne erano nella caserma della guardie civiche di Binondo e guidava gl’insorti verso quella parte.

Sapeva già d’incontrare una seria resistenza, ma contava sull’audacia dei congiurati e sulla numerosa popolazione del sobborgo.

L’assalto alla caserma era stato dato con vigore. Gl’insorti, guidati dal chinese e dai capi delle società segrete, aprirono un fuoco violento contro il quartiere, e contro la robusta porta che era stata prontamente chiusa e barricata.

Sarebbe stato necessario qualche pezzo d’artiglieria per ottenere qualche risultato, ma il tempo mancava per disarmare i prahos malesi ancorati lungo la calata. Le truppe della Ciudad potevano giungere da un istante all’altro e prendere i ribelli fra due fuochi.

Mentre riusciva vana la fucilata dei congiurati, cominciava a menar strage quella delle guardie civiche. Quei soldati, nascosti dietro le finestre, rispondevano con una grandine fitta di proiettili e senza esporsi ad alcun pericolo.

Già parecchi insorti erano caduti, fra i quali qualche capo delle società segrete.

Anche Hang-Tu, che combatteva arditamente alla testa dei suoi chinesi e dei gendarmi, incoraggiandoli colle parole e coll’esempio, aveva avuto l’ampio cappello di fibre di rotang attraversato da una palla, mentre un’altra, colpendolo di rimbalzo, gli aveva tracciato un solco sanguinoso sulla fronte.

La partita era perduta. La guardia civica, invece di arrendersi, come avevano sperato gl’insorti, si preparava ad assalirli e per di piú sul ponte del Passig, si vedevano accorrere grossi drappelli di cacciatori.

Bisognava pensare a salvarsi o prepararsi a morire vendendo cara la vita.

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