Emilio Salgari - Le stragi delle Filipine

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Romero si era bruscamente interrotto. Al di fuori della strada, era echeggiato un fischio breve, ma modulato e che egli ben conosceva. Impallidí, poi fece un gesto di stupore.

– Hang-Tu!… – mormorò. – È un segnale d’allarme.

Si liberò dolcemente dalle braccia della giovanetta e s’avvicinò alla finestra, aprendo silenziosamente le persiane.

Un uomo avvolto in un grande serapé a vivaci colori e col capo nascosto da un ampio cappello di fibre di rotang simile a quello usato dai chinesi, stava fermo in mezzo alla via, col viso volto verso le muraglie del giardino.

– Sei tu, Hang? – chiese il meticcio.

– Sí, – rispose il chinese. – Fuggi o ti arresteranno. Gli spagnuoli hanno saputo che noi siamo sbarcati e se non ti affretti, non lascerai piú la Ciudad.

– Attendimi.

Il meticcio rinchiuse la persiana e nel volgersi si sentí stringere le mani da Teresita.

– Ti cercano! – esclamò ella, con terrore.

– Sí, ma non mi prenderanno, – rispose Romero, alzando fieramente il capo. – Ho delle armi e mi difenderò.

– E tu parti?…

– Se rimango possono uccidermi e bisogna che oggi viva per la libertà delle isole… e per te.

– Ah!… Mi vorrai sempre bene?

– Sí, Teresita, e chissà che un giorno la fatalità non si stanchi di perseguitarci.

Un secondo fischio risuonò sotto le finestre.

– Va’, parti mio valoroso, – disse la giovanetta. – Io non voglio che i miei compatriotti ti uccidano. Ah! quanto dolore in questa separazione e forse… non ti rivedrò piú!

Un nuovo scroscio di pianto le soffocò la voce. Il meticcio la baciò in fronte, poi mentre la giovane si abbandonava fra le braccia di Manuelita, riaprí la persiana, scavalcò il davanzale e si slanciò nella via dicendo ad Hang:

– Eccomi!… Appartengo ora all’insurrezione!…

Capitolo V. IL «FIORE DELLE PERLE»

Hang-tu si era messo rapidamente in cammino senza aver rivolto all’amico una parola. Pareva in preda ad una viva inquietudine e pur affrettando il passo, volgeva la testa da tutte le parti, come se temesse di veder sbucare improvvisamente dei nemici.

Invece di seguire le mura del giardino, si era gettato in mezzo ad un dedalo di viuzze che un tempo dovevano essere fiancheggiate da grandi case, ma che ora si trovavano ingombre di rottami, di muraglie screpolate, di colonne semi-crollanti, tristi avanzi delle scosse tremende del suolo vulcanico e delle ire dell’Albay, un vulcano quasi sempre eruttante lave e fiamme.

Romero, assorto nei suoi pensieri, lo seguiva macchinalmente, senza curarsi di sapere dove lo conducesse, né di conoscere il motivo di quella rapida marcia che somigliava ad una fuga precipitosa, ma dopo alcuni minuti, vedendo che Hang-Tu non accennava ad arrestarsi, anzi che raddoppiava sempre piú il passo, ad un certo momento si arrestò, dicendo:

– Ma dove andiamo?… Questa non è la via che conduce al ponte di Binondo.

– Ti salvo, – rispose il chinese.

– Ma se nessuno mi ha veduto entrare nella Ciudad?…

– Cosa importa?… So che tutti gli alguazil hanno mandato guardie nei sobborghi e che alle sentinelle hanno dato ordine di non lasciar uscire dalla città alcun mulatto, senza averlo diligentemente esaminato.

– Qualcuno ci ha scoperti adunque?…

– I traditori non mancano mai.

– Ma dove andiamo ora?…

– Ti faccio guadagnare la campagna. Prima dell’alba sarai ben lontano da Manilla.

– Ma se mi hai detto che non si può uscire dalla Ciudad?…

– Uscirai egualmente.

– È per questo che sei venuto a troncare il mio colloquio con Teresita?

– Per questo e forse per altro, – rispose Hang-Tu, con un sorriso strano. – Eccoci dinanzi ai bastioni…

– Ma se salto giú mi spezzeranno le gambe.

Invece di rispondere, il chinese mandò il suo solito fischio. Un altro, quasi simile, tosto vi rispose.

– I miei uomini sono puntuali, – disse Hang.

S’arrampicò lentamente sulla scarpa e si trovò dinanzi a due chinesi che parevano fossero scaturiti da terra. Quei due uomini tenevano in mano una lunga fune a nodi e dalle loro spalle pendevano due fucili.

– È tutto pronto? – chiese Hang.

– Sí, capo.

– Li avete veduti?…

– Si sono avvicinati pochi minuti or sono al fossato.

– Hanno i cavalli?

– Quattro e tutti di buona razza.

– Than-Kiú è brava ed intelligente, – disse Hang, con voce leggermente commossa.

A Romero parve che soffocasse a metà un profondo sospiro, ma non vi fece caso. Sapeva che Hang aveva talvolta delle bizzarrie inesplicabili.

Ad un cenno del capo delle società segrete, i due chinesi calarono la corda nel fossato del bastione che s’apriva sei metri piú sotto, ingombro di piante acquatiche e di fango.

– Addio, – disse Hang, abbracciando il meticcio, mentre la sua voce pareva che diventasse maggiormente commossa. – Se le palle dei nemici uccideranno uno di noi, ci rivedremo un giorno nell’altra vita.

– Addio!… – esclamò Romero, stupito. – Ma non vieni tu?

– No, Romero; ma se la morte mi risparmierà, spero di raggiungerti presto sulle trincee di Salitran e di combattere al tuo fianco per l’indipendenza delle isole.

– Ma perché non fuggi con me, mentre ti si cerca?…

– Altri avvenimenti stanno per scoppiare e le mia presenza in Manilla è necessaria.

– Ma quali?…

– Lo so io forse?… Il caso può preparare delle sorprese che io ignoro e che non posso prevedere. Va’, Romero: al di là del fossato troverai due uomini ed una guida sicura, fedele… forse troppo fedele… Veglierà su di te, ma tu veglia su di lei.

– Chi è quella guida?

– Lo saprai fra poco. Addio, o meglio arrivederci presto dinanzi a Salitran.

I due capi dell’insurrezione si abbracciarono un’ultima volta, poi il meticcio si aggrappò alla fune a nodi che i due chinesi tenevano con mani sicure, e scese rapidamente nel fossato.

Avendo, le radici delle piante acquatiche, formato come un reticolato attraverso al fango, gli riuscí facile raggiungere la riva opposta senza bagnarsi.

S’arrestò un momento e guardò verso la cima dell’enorme bastione, giganteggiante nelle tenebre. Proprio sull’orlo egli vide Hang-Tu immobile come una statua di granito, coll’ampio cappello abbassato sul viso e le braccia incrociate. Pareva che il capo degli uomini gialli fosse immerso in profondi pensieri e che non si ricordasse piú del grave pericolo che correva standosene lassú, a cosí breve distanza dai posti di guardia.

Romero gli fece un saluto colla mano, ma senza che Hang rispondesse o si scuotesse da quella immobilità.

Salí la scarpa erbosa, tenendosi curvo per non farsi scorgere dai soldati che potevano vegliare nell’angolo del bastione, dove s’ergevano delle casematte, e raggiunse la via esterna di circonvallazione, gettandosi prontamente in mezzo ai gruppi d’alberi.

– Qui, Romero Ruiz, – disse una voce.

Il meticcio si volse e scorse quattro cavalli che si tenevano immobili sotto la fosca ombra d’un tamarindo colossale. Tre erano montati, ma il quarto aveva la sella vuota.

– Siete voi gli uomini mandati da Hang-Tu? – chiese Romero

– Sí.

Il meticcio gettò uno sguardo sui suoi compagni di viaggio. Due erano robusti giovani malesi, dalle membra massicce ed il corpo tarchiato, ma il terzo pareva piú un fanciullo che un uomo. Essendo però avvolto in un ampio mantello di seta bianca a fiori ed a disegni, che gli copriva buona parte del viso ed avendo in capo un cappello di paglia di Manilla a grandi tese e adorno d’una piuma, non si poteva vedere che fosse, né quale età potesse avere, ma Romero pel momento non si occupò di quel misterioso compagno, che pareva volesse serbare l’incognito.

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