Emilio Salgari - Le stragi delle Filipine

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Di tratto in tratto si udivano anche i tintinnii delle sciabole dei cavalieri e dei comandi imperiosi.

Dieci minuti dopo i quattro insorti videro sfilare, a meno di cento passi, una lunga fila di cavalli montati da soldati spagnuoli, i quali tenevano in mano una lunga fila di moschetti come se temessero qualche improvvisa sorpresa.

Era uno squadrone del reggimento Luzon, in pieno assetto di guerra. Fortunatamente non s’accorse della presenza dei quattro ribelli e passò oltre scomparendo fra le tenebre.

Than-Kiú attese che si allontanasse, poi quando ogni rumore cessò fece rialzare il cavallo, balzò in arcione e si rimise in marcia, facendo cenno a Romero e ai due malesi di seguirla.

Pareva molto inquieta e preoccupata. Non rispondeva piú alle domande di Romero e di tratto in tratto si fermava per ascoltare.

Un quarto d’ora dopo un altro fragore simile al primo si udí, ma verso la riva del Passig. Pareva che un altro squadrone di cavalleggeri si dirigesse verso la capitale.

Than-Kiú si era nuovamente arrestata, interrogando i due malesi in una lingua che il meticcio non comprendeva, poi aveva ripreso le mosse, ma eccitando il suo cavallo. Aveva però preso un’altra direzione, come se volesse avvicinarsi al canale meridionale del Passig che va a finire verso Las Pinas.

La marcia continuò per un’altra mezz’ora sempre in mezzo al bosco, poi la giovane chinese tornò ad arrestarsi. Scese nuovamente di sella e si fermò dinanzi al proprio cavallo, incrociando le braccia sul seno, ma senza pronunciare sillaba.

– Che cosa vuoi? – chiese Romero.

– Bisogna arrestarci qui, mio signore, – rispose ella.

– Perché?

– Gli spagnuoli hanno chiuso tutti i passi. Ho scorto or ora i fuochi dei loro accampamenti.

– Ritorniamo a Manilla?…

Than-Kiú scosse il capo, dicendo:

– No: attenderemo la notte ventura.

– Nascosti qui?…

– Than-Kiú offrirà un ricovero al suo signore.

Prese il cavallo per la briglia, si cacciò in mezzo ad un macchione enorme di aranci, di borassi, di banani selvatici e di alberi gommiferi che colle loro smisurate foglie dovevano anche, in pieno meriggio, proiettare un’ombra assai cupa, e poco dopo s’arrestava dinanzi ad una casupola mezzo diroccata, dicendo:

– Ecco il rifugio degli insorti quando sono costretti ad arrestarsi. Il mio signore non correrà pericolo alcuno.

Capitolo VI. I MISTERI DI THAN-KIÚ

Quella casupola sepolta in mezzo alla foresta che serviva di rifugio agli insorti provenienti dai campi delle provincie meridionali, recanti notizie dei congiurati di Manilla, era una vera catapecchia, colle pareti di tronchi d’albero sconnesse, col tetto crollante, ma circondata da quattro o cinque felci colossali che la celavano completamente.

Anche passando vicino al macchione, nessuno di certo avrebbe potuto supporne l’esistenza; poteva quindi sfuggire anche alle indagini degli spagnuoli, i quali d’altronde non si occupavano delle bande e degli insorti.

Udendo avvicinarsi i cavalli, un uomo era uscito tenendo in mano un vecchio moschettone. Non era né un tagalo, né un chinese, un malese, ma uno di quei brutti abitanti dell’interno delle isole chiamati igoroti o negritos eta, veri pigmei, poiché di rado superano l’altezza di un metro e quaranta centimetri, coi capelli lanosi come quelli dei negri, il viso corto, le pinne del naso allargate, le labbra grosse, gli occhi piccoli, il corpo esile, le spalle curve e la pelle nerastra, fuligginosa.

Questi strani esseri, che per la loro tinta e pei loro lineamenti si staccano completamente dai tagali, sono veri selvaggi che errano sui monti e fra i boschi dell’interno senza fabbricarsi ricoveri, nutrendosi di radici, di miele, di frutta, o di selvaggina quando riescono ad abbatterne qualche capo.

Vedendo Than-Kiú ed i due malesi che doveva aver riconosciuti quantunque l’oscurità fosse intensa sotto le grandi felci, abbassò il moschetto e si tirò da un lato per lasciar entrare la giovane chinese ed il meticcio.

L’interno della casupola non valeva meglio dell’esterno. Era uno stanzone ingombro di armi da fuoco e da taglio e di alcuni mucchi di foglie secche che dovevano servire da letti, ed ammobiliato con una rozza tavola ed alcune scranne di bambú, forse costruite dal negrito. Un ramo resinoso, che spandeva piú fumo che luce, cacciato in un crepaccio del suolo, lo illuminava, ma cosí scarsamente che gli angoli rimanevano immersi nell’oscurità.

Il meticcio, stanco delle vicende della notte e dalle fatiche, si era lasciato cadere su di una scranna, mentre la giovane chinese si era appoggiata alla tavola senza sbarazzarsi né del cappello né del mantello. Aveva voltato le spalle alla luce della torcia, ma spiava ogni minimo movimento di Romero e sembrava che si tenesse pronta ad ogni suo cenno.

Pareva però che il meticcio si fosse completamente dimenticato della sua compagna di viaggio e che la lunga veglia lo avesse vinto poiché non si era piú mosso.

Il ramo resinoso si era spento e l’oscurità aveva invaso bruscamente l’interno della capanna, ma né l’uno, né l’altro avevano pronunciato una sola sillaba.

Due volte i malesi che si erano messi di guardia dinanzi alla porta della capanna, erano entrati per chiedere forse degli ordini o per accendere una nuova torcia, ma Than-Kiú, con un gesto silenzioso, li aveva rimandati, poi aveva ripresa la sua immobilità. Si sarebbe detto che temeva di turbare il riposo del meticcio o di distrarlo dai suoi pensieri, ignorando ella se dormisse o se meditasse.

Ad un tratto Than-Kiú si scosse, lasciando cadere bruscamente il mantello di seta che l’avvolgeva. Romero aveva pronunciato un nome:

– Teresita!…

Gli era sfuggito quel nome mentre dormiva e sognava della bruna fanciulla?… È probabile.

Than-Kiú aveva alzato lentamente il capo che fino allora aveva tenuto chino sul seno, ed un sospiro le era uscito dalle labbra, ma era cosí lieve che nessuno avrebbe potuto udirlo. Le sue braccia però, che teneva strette al petto, provarono un tremito tradito da un leggero tintinnio metallico, prodotto forse da alcuni braccialetti o da alcuni gioielli che portava ai polsi.

Tornò però ad irrigidirsi, ma tenendo gli sguardi sempre fissi sul meticcio, il quale a poco a poco si era appoggiato alla parete, come se ormai il sonno lo avesse completamente vinto.

Intanto le tenebre lentamente si diradavano. Spuntava l’alba e dalla porta rimasta aperta cominciava ad entrare un po’ di luce pallida, che rapidamente si tingeva di riflessi color di rosa d’una infinita dolcezza. Anche attraverso ai tronchi sconnessi delle pareti, altri sprazzi di luce entravano, mentre l’aria s’infiltrava piú fresca e profumata dall’olezzo degli aranci che crescevano in mezzo alla macchia.

Al di fuori, fra i rami degli alberi, una coppia di cyrtostomus, piccoli uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici, simili a trochilidi americani, cinguettavano allegramente, salutando la imminente comparsa del sole.

D’improvviso Romero alzò il capo, come se si fosse bruscamente svegliato, rialzando con una mano i bruni riccioli che gli scendevano sulla fronte. Rimase un momento immobile come trasognato, poi si alzò di scatto, col piú vivo stupore dipinto sul viso.

Than-Kiú gli stava dinanzi, ancora appoggiata alla tavola, ma aveva lasciato cadere anche il cappello e mostrava il suo viso, che durante tutta la notte aveva tenuto costantemente coperto.

Il Fiore delle Perle, pur appartenendo ad un’altra razza, poteva ben gareggiare per bellezza colla Perla di Manilla e produrre una viva impressione anche sul cuore di Romero.

Quella giovanetta, nata all’ombra delle pagode del Celeste Impero e trasportata, chissà in seguito a quali vicende, sotto il dolce clima delle isole ispaniche, era forse una delle piú belle e delle piú perfette creature nate dall’incrocio della razza mongola con quella mantsciura. Era piú alta di Teresita, mirabilmente sviluppata, dalla pelle candida, senza quei riflessi leggermente giallastri che si scorgono sui volti delle donne chinesi delle provincie meridionali, anzi d’una tinta quasi alabastrina, ma con certe sfumature indefinite che solo si scorgono sull’avorio.

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