Alessandra Grosso - Scala E Cristallo

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me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare

le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e

capii che l’oscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e

che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi

verdi e terribili.

Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.

Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la

rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e

riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.

E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno

potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.

Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,

ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non

avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola

che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più

niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa

bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso

uccidimi se ti va… fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il

mio sangue?».

Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse

la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo

superato la prova e che stavo diventando più forte.

La forza l’avevo temprata dentro di me forgiandola con la

pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a

ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma

anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è

forse questa l’origine di ogni insicurezza e l’anello comune a

tutta l’umanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci

spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.

Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire

e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte

non vedevo l’ora di misurarmi con esse, ma dall’altra sentivo

ancora il brivido gelido della paura verso l’ignoto. Ciò

nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre

sfide e altri territori.

I territori tormentati tipici di una tundra nordica

sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e

gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I

sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono

per lasciare spazio a un misterioso labirinto.

Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che

portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le

coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro

contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire

la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e

spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella

del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso

finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio

spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma

affaticandomi terribilmente.

La fatica era una sensazione che ben conoscevo, un’amica e

una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non

mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto

seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte

terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani

e sangue.

Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:

dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare

quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri

perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo

morti.

Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo

distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio

tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.

Da sola attraversavo quel nuovo territorio ostile fatto di

sabbia, piccoli spazi lastricati e muschio che cresceva tra le

crepe delle antiche rovine.

In quelle rovine vi erano teschi abbandonati, alcuni con i

capelli ancora impigliati, capelli oramai ingialliti dal

tempo.

All’improvviso, uno scricchiolio sospetto e poi uno

schianto. Davanti a me apparve una porta girevole, che spinsi.

E cosa trovai mi lasciò senza parole.

Era me stessa. Era me stessa, ma in un certo modo diversa.

Era me stessa, era me stessa che vedevo e non ci potevo

credere. Finalmente avrei avuto qualcuno con cui parlare e

confrontarmi. Avrebbe potuto dirmi da dove veniva, cosa

faceva.

Lei mi assomigliava in tutto, solo era vestita più

elegantemente. Aveva affrontato molte peripezie, come me, ma

non altrettanto pericolose. Trovandosi in un bel giardino, in

una dimensione lontana, era caduta ed era incappata nella

porta dimensionale che avevo aperto. Era così passata da un

mondo all’altro, trovandosi confusa e sotto shock per la

novità.

Ora eravamo in due in quel mondo parallelo, eravamo due

eroine nella notte, nel gelo di quelle agghiaccianti rovine.

Eravamo due ma pur sempre due gemelle, due piccole anime nella

notte, due candele accese che potevano aiutarsi l’un l’altra o

decidere di morire facendosi competizione.

La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che

aveva portato le donne a prendersi per i capelli per l’amore

di un fedifrago o a perdere il lavoro per chi non era riuscita

a ingraziarsi il capo; la competizione era potente e micidiale

come fiale di veleno. Non potevo che temerla.

Valutavo attentamente gli atteggiamenti del mio clone,

della mia gemella, ma lei si dimostrò sempre molto affabile e

comprensiva. Mi seguiva sempre e aveva un atteggiamento

gentile e aperto nei miei confronti. Mentre ci avventuravamo

sempre più all’interno delle rovine, la nostra sintonia

cresceva.

Quel breve attimo di tranquillità, quel breve istante in

cui mi ero resa conto che non ero più sola, che potevo avere

un futuro, fu però presto sconvolto.

I MOSTRI DELLE CAVERNE Era mostruoso rumoroso e si nutriva di paura Aveva il - фото 10

I MOSTRI DELLE CAVERNE

Era mostruoso, rumoroso e si nutriva di paura. Aveva il

corpo arrossato con le vene in vista per la bruciatura totale

della sua pelle. Era altissimo, circa quattro o cinque metri,

con robusti e grandissimi piedi che si muovevano facendo il

rumore di un masso che si frantuma per terra. Aveva la bocca

piena di denti per mordere e amava la carne umana.

Era vissuto lì per secoli, e nascosto aspettava giovani e

anziani al centro delle rovine, nel punto dove divenivano più

articolate; era vissuto nelle rovine fin da quando esse erano

un castello fantastico. Era il figlio non voluto di una

violenza ed era stato maledetto fin dal primo momento. Era il

frutto di uno stupro combinato con ben sette maledizioni

antiche. Aveva gli occhi gialli e luccicanti e poteva vedere

al buio, fiutare al buio.

Aveva fatto un patto con unaltra creatura demoniaca un mostro che odiava - фото 11

Aveva fatto un patto con un’altra creatura demoniaca: un

mostro che odiava l’innocenza.

I loro nomi erano Dannazione, il risultato delle

maledizioni, e Vendetta, colui che odiava l’innocenza.

Vendetta era un killer silenzioso, raffinato, intelligente

e psicopatico che, vedendosi morire sul rogo, aveva fatto un

patto con Dannazione prima di essere bruciato vivo. Dannazione

era stato in grado di riprendere le ceneri di Vendetta e

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