Alessandra Grosso - Scala E Cristallo

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con una finta di lato gli fracassai la sedia in testa. La

sedia si ruppe e in mano mi rimasero due monconi. Agitata, li

infilzai con rabbia nel torace e nel collo del mostro.

Ora l’orrenda figura bruciata era a terra. Potevo solo

tentare di dargli fuoco. Lo avrebbe rallentato: ne aveva la

fobia… l’orrendo mostro aveva la fobia del fuoco che avrebbe

spazzato via l’invidia che aveva nutrito durante la sua vita,

un’indivia feroce nei confronti della bellezza e

dell’innocenza – infatti era stato psicopatico e manipolativo.

Io ero quasi certa di questa sua fobia, ma dovevo pur

difendermi e renderlo inoffensivo.

Durante la vita aveva capito che l’invidia e la gelosia

erano mal viste, così le mascherava dietro una corazza fatta

di charme e intellettualismo, ma oscuri e aspri erano i suoi

pensieri; si dice infatti “gran brutta cosa è la fame”. Per me

l’invidia è peggio, e nella storia ha originato guerre, risse,

conflitti e infiniti lutti.

Trovai il mio accendino dei bei tempi, lo chiamavo lo

“Zippo dei miei sedici anni”, quando fumacchiavo di nascosto.

Mi mossi velocemente e lanciai lo Zippo, poi vidi la chiave,

la presi e corsi verso le scale.

Cinquantacinque scalini.

Ero giovane, e li percorsi volando.

Sentivo dolore al ginocchio ma perseveravo. Pensavo che

ogni scalino fosse la vita, li contavo e li ricontavo.

Raggiunta la cima, svoltai infine dietro la ringhiera che

proteggeva le scale e rapidamente consegnai la chiave ai

compagni trovati lì che cercavano la luce, ma anche a chi

voleva andare nella direzione opposta e avventurarsi per gli

abissi.

La chiave girò, ma nel mentre sentii che il mostro si

stava riprendendo e si stava avvicinando: voleva ripercorrere

la scala.

Noi volevamo uscire di lì e scappare verso la luce… luce

che cercavo da sempre, ma intanto avevo sempre davanti le

intricate sbarre del cancello dipinte di bianco che mi

ricordavano la purezza e ancora una volta la luce.

Le sbarre erano robuste e fitte e il mostro sarebbe

rimasto lontano da loro perché la luce mi proteggeva… ma che

cosa poteva mai essere questo elemento protettivo?

La luce? Cos’è mai la luce? Dio? Luce come Lucifero? Eh,

sono domande, sono domande… ma la risposta?

Continuavo a cercarla, e dopo essere scappata dal mostro

della cantina mi avventurai in una chiesa oscura.

Il mostro aveva bestemmiato, infuriato, con la sua voce

gutturale e spaventosa; aveva imprecato, ma le sbarre erano

state chiuse, tutti erano scappati e la chiave era ora

disponibile per chi volesse morire o andare a ucciderlo

definitivamente. Io più di così non potevo fare.

Non capivo cosa ci fosse di strano nella vecchia chiesa oscura ma - фото 6

Non capivo cosa ci fosse di strano nella vecchia chiesa

oscura, ma improvvisamente mi trovai da sola e al buio, in

quella chiesa polverosa e coi muri scalcinati e scarni.

Mi avventurai lungo la cella che credo fosse la navata di

destra e vidi uno strano inginocchiatoio con una statua.

Strana statua , pensai. Cosa avrà mai…

Era piena di sangue.

Un brivido e poi una voce.

«NON esiste una sola Morte!».

La morte sarà veramente la fine di tutto o andremo nel

passato? O nel futuro? O svaniremo lentamente in una nuvola di

fumo? Un passato vicino o lontano o una dimensione parallela?

Mi chiedevo ciò mentre mi ritrovavo fuori dalla chiesa

misteriosa a vagare in mezzo alle felci. Felci giganti,

maestose dalle foglie lucide che avevano odore di selvaggio e mi ricordavano - фото 7

maestose, dalle foglie lucide che avevano odore di selvaggio e

mi ricordavano la mia infanzia vicino al lago nella vecchia

casa di campagna. Quella casa di campagna era vicina, ma io

ero curiosa e volevo oltrepassare la distesa di felci, in un

atteggiamento di ricerca e perlustrazione tipico della prima

pubertà. La mia giovinezza mi diceva infatti “esplora”, la mia

saggezza “pensa”, il mio cuore “prova”. Andavo avanti seguendo

la mia natura avventurosa… e anche in quel momento lo stavo

facendo, come tipico del mio carattere.

Scovai una scena del passato, una lotta feroce tra

tirannosauri, e scappai. Prima della fuga, posso testimoniare

di aver visto i denti aguzzi dei due animali e il loro

atteggiamento che da sfida si trasformava in attacco vero e

proprio. Con i loro corpi mastodontici e muscolosi si

scontravano, distruggendo tutto ciò che travolgevano. Avevano

abbattuto alberi e distrutto le mie amate felci, in una lotta

tipica del periodo riproduttivo.

Correndo, caddi su delle pietre che ruzzolavano le une

sulle altre. Il rumore attirò i sensibilissimi bestioni, che

si voltarono e iniziarono la caccia.

Sentivano ogni odore e percepivano la paura, come molte

fiere selvagge.

Scappai disperata, il respiro che si faceva pesante. La

milza pungeva, affaticata, ma non potevo permettermi di

fermarmi: doveva esserci una via di uscita. E alcune volte

essa è più spaventosa delle cose da cui stiamo scappando. La

via di uscita era un oscuro vicolo che si prolungava in un

cunicolo crepato e buio inserito in una cavità.

Dovevo affrontare la claustrofobia.

Con un ultimo colpo di reni mi ci infilai. Fuori, le

gigantesche belve ruggivano livide di rabbia, poiché non

vedevano più la loro preda.

Strisciai per un sacco di tempo, l’aria stantia,

puzzolente e odiosa da respirare. Temevo ragni e topi… avevo

sempre odiato i ragni e i topi. Specialmente questi ultimi mi

terrorizzavano: da piccola ero andata nel pollaio e avevo

visto un enorme topo intento a rubare le uova a una gallina.

Ma ero piccola, ora invece ero una donna ed era tempo di

lottare per la vita.

Lottare per sopravvivere o scappare se l’avversario era

più grosso: questo era il meccanismo alla base della

sopravvivenza umana. Lo era sempre stato, e io continuavo a

usarlo, per me stessa, per la sopravvivenza della specie

umana, per l’umanità tutta.

L’umanità non era stata così al centro dei miei pensieri.

Prima di tutte queste avventure ero stata una nerd; un tipo

difficile, chiuso, sempre vestita di nero e parecchio

depressa, con addirittura pensieri suicidi. Tuttavia ora era

tempo di lottare e uscire dal tunnel.

Strisciavo, mi graffiavo e cercavo di andare avanti.

Quando sgusciai fuori era notte, una notte terrificante

quasi senza luna, con un cielo nero e a tratti reso incombente

e aggressivo dalle nuvole. Le nuvole avevano la forza di un

ghepardo per le tinte che si avventuravano sui muscoli

dell’animale con inquietanti sfumature rosse.

E vidi tutto. Vidi un tirannosauro che vagava davanti a

me, mentre lo osservavo nascosta in quella sorta di balcone

naturale.

Scesi da lì solo durante il giorno e mi sentii più forte,

pronta a vedere altri mostri e a perlustrare per capire la

vera natura delle cose: la mente era aperta a ogni

eventualità, a vedere altre strane creature e a captare altri

strani sogni.

I sogni erano stati tutto per me, lo sfogo di tutti i miei

desideri; erano la percezione delle cose addirittura prima che

accadessero, la percezione del no alla mia richiesta di aiuto

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