Michele Bornaschella - La soddisfazione di avercela fatta

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"La mia storia d'immigrante è una delle tante, così semplice e delicata come qualsiasi altra storia di immigrante italiano. Ma con così tanta grinta e volontà di superare se stessi che è ciò che finisce per distinguere gli uni dagli altri e, soprattutto, con la soddisfazione di avercela fatta. Non cerco riconoscimento pubblico, tantomeno voglio superare o confrontarmi con i miei simili, è la soddisfazione di aver superato me stesso. Potró ritenermi soddisfatto se posso mettere in chiaro che ho superato me stesso perché è questa la sensazione che ho ogni mattina ed ogni sera e continuo a provarci giorno dopo giorno" (Michele Bornaschella).
"La vita aveva in serbo per me la fiducia di Michele nel poter portare a termine questa storia. E non solo: l'opportunità di poter chiedere, così come lo spazio necessario che mi è stato concesso per poter immergermi nei suoi sentimenti e poter conoscere non solo lo strettamente necessario, ma anzi soddisfacendo ciò che la curiosità chiedeva per poter completare il panorama. Grazie a questo e quant'altro ho potuto intravedere una storia così emozionante che non credo che la stilografica abbia l'abilitá di poter dettagliare fedelmente" (Alberto Miramontes).

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Mentre ringraziava le persone che venivano a salutarci facendoci i loro migliori auguri, mia madre si preoccupava di non trascurare nessun dettaglio nei preparativi, e che non le scoppiasse il cuore tra la rivoluzione in casa e la necessità di avere tutto sotto controllo. Tra coloro che vennero a salutarci c’era la famiglia Zaccarella. Michele era mio amico e mia sorella a volte si prendeva cura di lui. In un angolo della memoria ho conservato per sempre lo sguardo di sua madre mentre saltavo tra il baule e la valigia e correvo dappertutto per l’ultima volta in quella casa.

Con la consapevolezza che la vita e il tempo mi hanno dato, posso dire di aver capito lo sguardo di Maria Zaccarella, madre del mio caro amico Michele, uno sguardo che racchiudeva l’incertezza del nostro destino, chiedendosi in quale angolo di questo mondo saremmo andati a finire.

Nessuno di noi dormì quella sera. Alle cinque del mattino Angelo Zaccarella, lo zio del mio amico Michele, ci portò alla stazione ferroviaria di Roccaravindola. Prendemmo il treno per Campobasso e poi un altro per raggiungere il porto di Genova. Non persi mai di vista la tensione che percorreva per tutto il corpo la mamma e che si intuiva in ogni gesto. La responsabilità la soverchiava ed avrebbe dato la vita perché fossimo tutti, in un batter d’occhio, dall’altra parte dell’oceano. Ma il viaggio era lungo e c’erano ancora cose da risolvere.

Capitolo III

Il mondo dall’altra parte del mare

Dal ponte della nave, la mamma guardava il fianco delle montagne di Genova, le sue case, i suoi camini, e vedeva la propria vita proiettata verso luoghi ignoti. Vedeva un passato recente sparire così velocemente da non aver avuto nemmeno il tempo di reagire. Doveva accettare il fatto di essere stata spogliata della sua terra e dei suoi ricordi, come se nulla fosse successo. La contemplavo, consapevole della sua malinconia e tristezza e credetti che la cosa migliore fosse intervenire con parole che rompessero quel silenzio e dissi: “Arrivederci Italia”. Mia madre crollò. Se avesse pianto poi, non lo so, ma quella volta sì, perché lo vidi e lo sentii. Si chinò verso di me e continuò a piangere ancora un po’, e mi abbracciò con un braccio solo, perché con l’altro teneva ancora stretta la borsa con la lana e la maglia.

A Roccaravindola abbiamo incontrato la famiglia Rossi, Berenice, Giuseppe e i loro otto figli. Abbiamo condiviso tutto viaggio con loro, e più tardi fummo pure vicini di casa a Villa Clara. Con Pepe, uno dei loro figli, abbiamo passato molto tempo a giocare a dama sulla nave e Adriano, un altro dei loro figli, divenne un mio dipendente qualche tempo dopo, in una delle mie tante attività commerciali.

Anche se i nostri posti erano in terza classe, il transatlantico era una nave maestosa, solo passeggeri, dove si serviva la colazione, il pranzo e la cena come non avremmo mai sognato. C’erano zone destinate ai giochi per bambini e altre per le attività ricreative degli adulti. Condividevamo la nostra cabina con una donna che viaggiava con suo figlio e l’oblò, da cui entrava la luce e il buio, incorniciava la linea di galleggiamento.

Mia madre continuava ad essere ansiosa e nervosa. Camminava lungo il ponte e si sedeva, di tanto in tanto, con il lavoro a maglia in grembo, ma senza farlo. Con il passare dei giorni, iniziarono a circolare delle voci su quanto fosse pericoloso attraversare lo stretto di Gibilterra. Senza nessuna logica, era nata, e diffusa da qualche ignorante, la diceria che se nello stretto ci si fosse incrociati con un’altra nave in senso contrario, correvamo il rischio di collisione.

Questo provocò, soprattutto nei bambini, me compreso, una grande paura.

Poi arrivammo al porto di Dakar e, anche senza scendere dalla nave, rimasi sorpreso a vedere persone di colore che camminavano in terra. Alcuni passeggeri scendevano nei porti dove faceva sosta la nave per i rifornimenti. Noi, assieme ad altre famiglie rimanevamo sulla nave per la semplice ragione di non aver nulla da fare in terra. Una volta partiti da Dakar, sapevamo che la nostra prossima fermata sarebbe stata dall’altra parte dell’oceano. Festeggiammo il pranzo di Pasqua in alto mare, uovo di cioccolata incluso.

Mentre viaggiavamo, mio padre andava di tanto in tanto al porto di Buenos Aires per avere informazioni e conferma di volta in volta della data di arrivo della nostra nave. Mia madre mi aveva preparato per il freddo che ci aspettava in Argentina. Ci comprava sempre vestiti di alcune taglie più grandi, così da poterli usare per alcuni anni senza doverne acquistare di nuovi. Il mio era spesso come una coperta e così grande che non vedevo le mie mani. Servì allo scopo, mi accompagnò per tutto il viaggio e per molti anni ancora. Ma mi faceva sentire a disagio, ridicolo e goffo.

Nel mezzo dell’Oceano Atlantico, la Giulio Cesare incontrò l’Augusto, una nave della stessa compagnia che stava facendo lo stesso viaggio, ma in senso opposto. Ci fu un frastuono di sirene, e urla, e mani che salutavano sconosciuti. Fu un episodio importante del viaggio, il quale rimase fissato nella mia memoria. La successiva fermata fu il porto di Rio de Janeiro, e poi il porto di Santos, in Brasile. A quel punto mio padre aveva la conferma definitiva della data del nostro arrivo a Buenos Aires: sabato 16 aprile del 1955.

Il porto di Buenos Aires era pieno di gente. Non avevo mai visto così tante persone tutte insieme. Quelli sulla nave si salutavano con quelli a terra senza conoscersi, come facemmo quando salutammo i passeggeri dell’Augusto in mezzo all’oceano. Dopo aver aspettato un po’, sbarcammo. Mio padre e mio fratello erano lì ad aspettarci. Ci salutammo tutti più e più volte. I miei genitori si rivedevano dopo quattro anni, il che li mantenne emozionati per un pò di tempo. Tutta la famiglia visse un momento di agitate emozioni, coi cuori che battevano forte. Io rimasi estraneo a questo festoso sconvolgimento. Per i ricordi che avevo fino a quel momento, quella fu la prima volta che conobbi mio padre. Andammo a Villa Clara in autobus, girando dappertutto i nostri occhi avidi e curiosi ad esplorare il nuovo paesaggio. A poco a poco ci allontanammo dal centro città, e l’espressione di mia madre si alterava gradualmente chiedendosi come sarebbe stata la nostra destinazione. Quando dopo più di un’ora finalmente arrivammo, lei rimase in silenzio, osservando ogni dettaglio della casa e l’immensità della campagna che ci circondava, con qualche casa sparsa qua e là, senza fare commenti.

Villa Clara era a quel tempo, una vasta area di campagna di quaranta ettari, in gran parte desolata e con un po’ di edifici modesti, nel chilometro 28, tra la Strada Generale Belgrano e la autostrada 2, a circa venti isolati dalla stazione di Bosques. La maggior parte dell’attività economica, peraltro modesta, consisteva in alcuni caseifici, il cui prodotto era adeguato, o poco più, al commercio con gli abitanti del paese. Il più noto era della famiglia Callegari. Con uno dei loro figli, Jorge, coltivammo una profonda amicizia. A parte quelle piccole manifestazioni sociali e produttive, non c’era nient’altro, il luogo era selvaggio e ostile, dove le strade erano sterrate e con l’erba che stava guadagnando spazio per la scarsa circolazione. C’erano promesse di asfaltatura, luce elettrica e gas, cose che sarebbero arrivate molto tempo dopo. Tutto ciò che doveva essere riscaldato, acqua, cibo o quant’altro, si lo faceva con un’unica stufa a cherosene. Perfino il lume che faceva luce la sera era a cherosene, finché più di un anno dopo arrivò il “sol de noche”.

La casa che mio padre riuscì costruire aveva una cucina e due camere da letto. Mio padre e mia madre dormivano in una stanza e noi quattro nell’altra, in due letti separati: ragazze in uno, ragazzi nell’altro. La mattina presto i nostri letti si mettevano fuori e la stanza si trasformava in sala da pranzo.

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