A quei tempi mio padre non aveva ancora deciso sul da farsi, e non c’erano molte novità al riguardo. Ma siccome manteneva uno scambio epistolare con sua sorella, la zia Aida, lei finì per irretirlo in un labirinto di bugie, che finirono per far esplodere in papà la decisione di non tornare più in Italia.
Prima di questo però c’è un altro ricordo che si affaccia nella mia memoria. Accadde che un nuovo insegnante arrivò in paese, con sua moglie e suo figlio e puntualmente tornava da scuola nel pomeriggio, scendeva dall’autobus e percorreva quattro isolati fino arrivare a casa sua. Forse fu proprio allora che nacque la mia vocazione commerciale di fornitore di servizi. Mi offrii, infatti, di portare la sua valigetta e il maestro mi ricompensava con qualche dolcetto. Non so se fosse giusto o no, ma preferii perseverare pazientemente per poter così ottenere delle ricompense un po’ più grandi. E non sbagliai, infatti poco tempo dopo l’insegnante comprò una nuova palla per suo figlio ed a me diede quella vecchia. Non giudicai se era giusto o no. L’emozione non me ne diede il tempo, perché il cuore mi balzava in gola, ma ciò non mi impedì di ringraziarlo adeguatamente. Portai la palla a casa tenendola ben stretta a me, quasi potesse sfuggirmi e la lasciai sul lato opposto del tavolo. Avevamo appena finito di cenare quando vennero a trovarci zio Pietro e suo figlio Emidio. Mio cugino ed io uscimmo di casa per giocare con la palla. A quattro metri di distanza l’uno dall’altro, io detti un calcio alla palla per primo, piano, facendo molta attenzione. Emidio invece la rinviò con meno attenzione e con molta forza indirizzandola al destino finale giù per la montagna e chissà dove perché non la vidi mai più. La cercammo quella notte: mia madre, lo zio Pietro, Emidio e io. La mamma la cercò anche il giorno dopo, all’alba molto presto, ma fu invano. In quel momento imparai cosa fosse la rassegnazione.
Mia madre, che aveva perso il conto delle rassegnazioni nella sua vita, non intendeva aggiungerne un’altra, ed iniziò a pressare mio padre per stabilire una scadenza al patto che avevano. Sicuramente tutto sarebbe andato a posto se non fosse stato per i pettegolezzi che zia Aida faceva arrivare ai fratelli di papà e che presto giunsero alle sue orecchie. Il fatto era che mia zia con chiacchiere maliziose e senza alcuna ragione metteva in dubbio l’onestà, la riservatezza e la fedeltà della mamma. I suoi cattivi e infondati pettegolezzi in paese non erano nemmeno tenuti in conto, era sola con la sua calunnia, ma la distanza e le difficoltà di comunicazione spargevano sconcerto e disagio. Quando mia madre lo venne a sapere, non reagì né con odio né con vendetta, semplicemente rimase indifferente. Ma mio padre invece, a dodicimila chilometri di distanza, non aveva la possibilità di mettere le cose a posto e capire la differenza tra pettegolezzo e verità. Tutte le ragioni che avevo per non raccogliere la provocazione come si sarebbe dovuto, convinto com’ero dell’onorabilità di mia madre, le avrei ritenute valide anche adesso. Invece mio padre non trovò altra soluzione che riunire tutti in Argentina e continuare qui le nostre vite insieme.
La mamma fece un nuovo tentativo per convincerlo, scrisse un’altra lettera, ma niente di più e ben presto passò sopra a tutte le clausole del patto. Quindi mio padre, dall’Argentina, iniziò le pratiche amministrative per ottenere il permesso di emigrazione per mia madre, le mie due sorelle e me. Questo passaggio, necessario per ottenere i biglietti, fu approvato il 31 gennaio 1955. All’inizio di marzo la mamma portò avanti le sue formalità in Italia. Ci dovemmo trasferire a Campobasso, dove ottenne il suo passaporto dove eravamo inclusi noi figli. Ci trasferimmo da lì al porto di Genova per alcuni esami medici. Le cose sembravano pronte, stavamo aspettando solo il momento della partenza. La data di partenza e il nome della nave dovevano essere confermati. Durante quei due giorni in dovemmo fare i conti con gli esami medici, alloggiammo nell’hotel per emigranti, vicino al porto. Quando qualcuno avvertì la mamma di un errore commesso nel passaporto: il nome di mia sorella, Giuseppa, era stato scritto erroneamente come Giuseppe, e questo avrebbe potuto impedire la partenza se non fosse stato corretto. Quindi tornammo in paese e il giorno seguente mia madre dovette tornare a Campobasso, con la missione di far correggere la “e” in “a” e dare a mia sorella la giusta identità.
Presa la decisione di andarsene, e con la personalità di mia madre le decisioni prese non avevano dietrofront, la casa e l’umore di tutti erano sottosopra. La mamma era tesa, cercando ogni momento di non lasciare niente al caso. Le formalità doganali e le altre procedure burocratiche, e in più l’incertezza di cosa si sarebbe trovata davanti, una volta iniziata la nuova vita, con un nuovo paesaggio e altre preoccupazioni, tutto ciò la teneva sveglia e inquieta tutto il tempo. La difficile decisione di vendere le sue proprietà, eredità dalla sua famiglia, era quello che la riempiva più di incertezze. Il mio padrino, Antonio, fu la persona che badò a tutto questo. Era la stessa persona che mi aveva regalato, insieme alla sua famiglia, una settimana in un mondo tutto diverso. Alcune cose si vendettero e altre si affittarono e Antonio si fece carico della loro gestione. Molti anni dopo capii l’apprensione di mia madre quando dovette trasformare le sue proprietà in denaro da investire e ricostituirle in un posto che non era mai stato ben descritto e che non riusciva nemmeno a immaginare. Dopo tutti i pettegolezzi diffusi da Aida, mio padre non ebbe nessuna intenzione di tornare in Italia, forse per paura o forse perché voleva dimenticare, quindi avere proprietà in Italia gli sembrò inutile e non redditizio. Da allora e fino a qualche tempo dopo di esserci stabiliti in Argentina, tutti le proprietà vennero liquidate.
Alla fine di marzo arrivò la notifica ufficiale. Il 1 aprile saremmo partiti dal porto di Genova, sulla nave Giulio Cesare. Fummo fortunati. Anche se viaggiammo in terza classe, era un lussuoso transatlantico. Mia madre non tardò molto a raccogliere le poche cose che avevamo. Prese una valigia e una cassa di legno e al loro interno mise i nostri vestiti, piatti e posate, che ho avuto la gioia di conservare in tutti questi anni. La mamma prese anche alcuni degli strumenti per lavorare la terra, il suo abito da sposa e dei libri di mio padre, alcune fotografie e soprattutto, la certezza che non saremmo mai più tornati a casa, anche se aveva la convinzione che non fosse la scelta migliore. All’ ultimo momento aggiunse una borsa piena di gomitoli di lana e alcuni ferri da maglia, per lavorare a maglia, qualcosa che effettivamente non fece, eppure non si staccò dalla borsa fino a quando arrivammo a Buenos Aires.
La mamma stava ancora finendo di fare i bagagli, e la notizia della nostra partenza si era già sparsa attraverso il passaparola, dalle case del quartiere fino alle persone giù in valle. La nostra si trasformò in una sfilata di persone. Mia madre aveva ventidue figliocci e tutti vennero a casa per salutarci, con le loro rispettive famiglie e così anche le altre famiglie dei vicini. A ciascuno di loro, la mamma raccontava dell’angolo del mondo lontano in cui avremmo vissuto.
Tra 1953 e 1954, mio padre si era già stabilito a Villa Clara. A quel tempo aveva un impiego sicuro ed era stato in grado di acquistare delle terre da un lotto messo all’asta dalla ditta F.lli Artaza, con agevolazioni per il pagamento rateale. In uno di quei terreni costruì un alloggio con cucina e due locali. Questa era la casa dove finalmente ci saremmo sistemati ed avremmo vissuto. Conoscevamo lo stato di avanzamento dei lavori attraverso le sue lettere, quando ancora continuava a mandare i soldi che riusciva a risparmiare sulle spese correnti, le rate della terra, i costi dei materiali da costruzione.
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