E fu così. Dalla sua partenza, e fino alla sua morte, ogni mese, con la stessa rigorosa serietà che aveva avuto mio padre, Amelia ci mandava un pacchetto con i vestiti per tutta la famiglia. Cose che non avremmo potuto mai avere e che continuammo a ricevere anche dopo la partenza di mio padre per l’Argentina.
Tuttavia, la situazione economica non era migliorata. Nel 1949 mio padre –io avevo un anno– ebbe una nuova speranza quando fu contattato dal proprietario di un importante pezzo di terra nella Valle Porcino, lungo la riva del fiume Volturno. Costui voleva assumere mio padre come caposquadra di un gruppo di persone che avrebbero lavorato nel suo campo. Il progetto stava prendendo forma e anche il sogno e l’illusione di mio padre. Ma il destino, la Divina Provvidenza o la fatalità che tira sempre le corde a suo piacimento, venti giorni prima della data prevista di inizio dei lavori, decise la morte del signor Nicodemo e con lui anche quella del progetto e della gestione di terre e costruzioni. Tant’è che quei terreni in cui si stava per lavorare, ad oggi sono rimasti congelati nel tempo, nello stesso stato, in abbandono.
Per mio padre questo fu il colpo di grazia. Nello sconforto decise che era giunto il momento di emigrare. Gli eventi che assediano altri, di tanto in tanto fanno visita a noi, temiamo il loro arrivo e cerchiamo di non pensarci, sperando che non giunga mai il momento di aprire quella porta. Comunque, un giorno giunse in casa nostra l’argomento emigrazione. In verità già diversi parenti, amici e vicini l’avevano già sperimentata. Sapevamo delle loro vicende e dei loro risultati, ma ora eravamo noi e specialmente mio padre, al centro della scena. Come si può immaginare, esisteva già un ingranaggio umano, una sorta di gestore, diremmo da queste parti, che con varia fortuna e differente onestà governava l’arrivo degli emigranti alle loro destinazioni. Diversi paesi, tra cui l’Argentina, favorivano l’immigrazione ed era facile ascoltare commenti sui vantaggi e gli svantaggi di questo o quell’altro luogo remoto nel mondo, per iniziare una nuova vita con i loro cuori e le loro famiglie, insieme o separati.
Mio padre, presa questa risoluzione forzatamente o per convinzione, con i pochi strumenti che aveva sottomano, iniziò a ragionare sulla destinazione migliore. Ma, per finir di prendere una decisione, non si confrontava solo con sé stesso, ma nel silenzio di entrambi, si confrontava anche con mia madre, che, da quel momento fino a che morì, ebbe la convinzione che quello sradicamento, sebbene logico per mio padre, non fosse la scelta migliore. Era stata una trattativa difficile, piena di nodi, con probabili risultati negativi, in cui mio padre proponeva il piano con cui avrebbe intrapreso il viaggio, scelto una sistemazione e un lavoro più o meno stabile. Poi avrebbe chiamato mio fratello, Angelo, perché anche lui si fermasse a lavorare, poi, con un po’ di fortuna ricavare un vantaggio in denaro e infine tornare a casa. L’andirivieni di discussioni ed opinioni non fu molto rapido, fino a quando nel 1951 mia madre accettò, non per convinzione ma per necessità, di mettere sulla bilancia le ragioni di mio padre. Nelle condizioni economiche del momento lo si vedeva infatti girare in ogni angolo di casa pensando e ripetendo “Non si riesce a lavorare, nemmeno per mangiare”.
Una delle possibili opzioni da considerare, erano gli Stati Uniti d’America. Ma ben presto fu scartata poiché erano necessarie persone più qualificate. Avevamo già alcuni parenti che vivevano in Brasile, in Venezuela e in Argentina. Nel 1950 nostro zio Fortunato, il fratello di mia madre, andò in Argentina. Si era stabilito in una città chiamata Villa Clara, dipartimento Florencio Varela, nella provincia di Buenos Aires. Con l’aiuto di altri vicini italiani aveva costruito un alloggio. Era modesto e abbastanza precario, appena sufficiente per dormire e svolgere le faccende domestiche essenziali.
Fu allora che lo zio Fortunato, con grande abilità, persuase mio padre che l’Argentina fosse la destinazione migliore, migliore di qualsiasi altra che i nostri amici, vicini o parenti avessero potuto consigliare. Mio padre vagò con i suoi sogni e le sue speranze per qualche tempo, da un’alternativa all’altra. Pensò alle promesse fatte a mia madre, al suo futuro e senza esserne molto sicuro, si imbarcò sul piroscafo Florida della compagnia navale ELMA e salpò dal porto di Napoli verso l’altra parte del mondo, e verso l’altra metà della vita, sua e mia.
Viaggiò insieme a suo fratello e le raccomandazioni che si erano fatti una volta arrivati a Napoli furono inutili. Era noto infatti che quella città ospitava persone scaltre molto abili nell’impossessarsi dei beni altrui, piccoli o grandi. Mio padre raccomandava a suo fratello, e viceversa, di stare molto attenti perché qui le trappole erano frequenti, inaspettate e subdole. Si avvicinò a loro un facchino del porto con il suo carrello e si offrì di portare la loro grossa cassa di legno al luogo dell’imbarco. “Stiamo attenti”, si raccomandavano l’un l’altro, e mentre uno di loro rimase in coda in attesa con il baule, l’altro andò a chiedere il tagliando per la spedizione del bagaglio. Il fatto fu che il facchino chiese a mio padre di portare il baule per tre lire, e continuarono a negoziare fino a raggiungere un prezzo finale di due lire. Ma poco dopo il facchino andò a parlare con mio zio, che fece la stessa cosa di mio padre, ignorando il fatto che lui avesse già pagato mentre faceva la fila. Quando entrambi i fratelli si riunirono di nuovo per imbarcarsi, si vantarono per l’affare che avevano fatto durante le trattative con il facchino, e così scoprirono che avevano pagato due volte per lo stesso servizio.
È un compito difficile tenere le fila tra un periodo e l’altro. Uno si avvale delle testimonianze di altri, dei ricordi personali e di quelli altrui. I miei dell’anno 1951 e degli anni precedenti sono svaniti. Non ho ricordi di mio padre quando viveva in Italia, un po’ a causa della mia memoria sbiadita ed un po’ per la sua assenza. Sono cresciuto ascoltando le storie di mia madre, di mio fratello e delle mie sorelle che mi raccontavano chi fosse e come fosse. Durante l’assenza di mio padre, mia madre non lavorava più come prima, al suo fianco, ma ora lavorava proprio come se fosse lui. Con avvedutezza ed intelligenza lavorava ai terreni e a tutto quello che serviva. La maggior parte delle volte rimanevo con mia sorella Livia, che si prendeva cura di me con variabile diligenza. Anche se non ho ricordi molto nitidi di quei tempi, mi ricordo di un libro di mia sorella in cui vidi una foto con dei cavalli e delle mucche che si riferivano all’Argentina. Ricordo anche che mia sorella mi disse “Papà è qui”. È il mio più antico ricordo riferito a questo paese.
Ma questo non è l’unico ricordo che unisce i miei pochi anni con mia sorella. Un pomeriggio stavo giocando con un cucchiaio ed un po’ di terra sulla terrazza della casa dei miei nonni paterni mentre gli adulti stavano separando i chicchi del grano. Quando vidi mio cugino Emidio che stava giocando con un ombrello, camminando lungo la “via”, un sentiero di ciottoli che passava sotto la terrazza, mi avvicinai al bordo dicendogli che gli avrei lanciato la terra che avevo nel cucchiaio e fu lì che sentii sulla schiena due mani fatali che mi spingevano un po’ per incoscienza e un po’ per divertimento. Ricordo che mi sporsi più del dovuto e caddi nel vuoto, e ricordo l’ombrello di mio cugino Emidio avvicinarsi sempre più alla mia faccia. Erano le mani di Cenzino, figlio di mia zia Aida, sorellastra di mio padre per il secondo matrimonio di sua madre, che mi spinsero nell’incertezza di quel vuoto. Poi non ricordo nient’altro.
Mio zio Pietro mi portò, ancora incosciente, dal dottor Gaetano Deboli, e chiamò mia madre a squarciagola, e l’eco si sparse per la valle. Questo era un eccellente mezzo di comunicazione, col quale si trasmettevano domande e risposte. Così chiamarono mia madre. Oltre allo spavento, un po’ di paura e i rimproveri che anni dopo mio padre fece a mia madre, dandole un po’ di colpa, l’unica conseguenza fu una cicatrice sulla fronte che mi accompagna ancora oggi, ma che mi protesse da future cadute.
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