Michele Bornaschella - La soddisfazione di avercela fatta

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"La mia storia d'immigrante è una delle tante, così semplice e delicata come qualsiasi altra storia di immigrante italiano. Ma con così tanta grinta e volontà di superare se stessi che è ciò che finisce per distinguere gli uni dagli altri e, soprattutto, con la soddisfazione di avercela fatta. Non cerco riconoscimento pubblico, tantomeno voglio superare o confrontarmi con i miei simili, è la soddisfazione di aver superato me stesso. Potró ritenermi soddisfatto se posso mettere in chiaro che ho superato me stesso perché è questa la sensazione che ho ogni mattina ed ogni sera e continuo a provarci giorno dopo giorno" (Michele Bornaschella).
"La vita aveva in serbo per me la fiducia di Michele nel poter portare a termine questa storia. E non solo: l'opportunità di poter chiedere, così come lo spazio necessario che mi è stato concesso per poter immergermi nei suoi sentimenti e poter conoscere non solo lo strettamente necessario, ma anzi soddisfacendo ciò che la curiosità chiedeva per poter completare il panorama. Grazie a questo e quant'altro ho potuto intravedere una storia così emozionante che non credo che la stilografica abbia l'abilitá di poter dettagliare fedelmente" (Alberto Miramontes).

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Non ci volle molto perché mio padre, dall’altra parte dell’oceano, venisse a conoscenza del mio incidente. La corrispondenza aveva una certa puntualità ogni mese. Mia madre gli raccontava di noi e di come stavamo crescendo e mio padre le scriveva della sua avventura americana. Lei gli chiedeva degli sviluppi dell’accordo fatto, e lui riferiva sui lavori che faceva. Come previsto, si sistemò a Villa Clara con lo zio Fortunato e gli altri connazionali, in un alloggio precario.

L’arrivo di mio padre rese quel posto ancora più scomodo. Ma la provvidenza, non molto tempo dopo, portò loro un’offerta di lavoro presso aziende agricole vicino a La Plata, ad Arturo Seguì. Detto fatto, fice che si trasferissero tutti.

Dopo aver lavorato un po’ di tempo con zio Fortunato nell’azienda agricola di Arturo Seguì, mio padre cominciò a lavorare nella fabbrica tessile Amat di Monte Grande. Mia madre gli mandava lettere con tutte le notizie del paese, su chi era venuto a mancare, mentre mio padre le raccontava dei progressi e delle conseguenze del “sindacalismo argentino”. Tra i lavori svolti ad Amat, ce n’era uno in cui lui insieme ad altri tre lavoratori dovevano caricare balle di filati, caricarle sui carrelli e stivarle nei magazzini. Il fatto era che puntualmente, a turno, ognuno degli altri tre faceva sosta per andare in bagno. Così le balle di filato non si muovevano. Giovanni, mio padre, si offriva allora di fare il lavoro per due, sostituendo il compagno con l’urgenza del bagno. “No, non puoi farlo” gli dissero la prima volta, un pò a modo di minaccia e un pò come insegnamento. “Non capisco” insistette “sono io che faccio il doppio della forza”. Lo avvertirono ancora una volta e quando andò in bagno gli operai gli spiegarono, con qualche botta, delle conquiste sociali ottenute, come andare in bagno senza necessità, l’uso della forza per far capire che così non va, e che era giunta una nuova era per gli operai. “Non capisco” tornò a scrivere nelle sue lettere, insieme ad una frase profetica per i tempi politici, economici e culturali che sarebbero venuti: “Queste persone avranno problemi”.

Ma mio padre non scriveva solamente. Tra una lettera e l’altra, con altri mezzi, inviava denaro a intervalli regolari. Tutti coloro che erano emigrati avevano il fondamentale bisogno di dimostrare che la loro avventura e il loro sforzo non erano stati vani e che potevano aiutare coloro che erano rimasti dall’altra parte del mondo, con la speranza di migliorare la loro vita. Anche se c’erano delle eccezioni. Come il caso di Carmelo. Carmelo si era già sistemato bene nella sua nuova patria e si godeva la vita. Alcuni paesani lo avevano avvertito del fatto che la sua famiglia a Montaquila non se la passava granché bene, e lui non riuscì a trovare un modo migliore per consolarli e aiutarli che scrivendo loro: “Cara famiglia, bevete e mangiate in allegria, non vi preoccupate per me”.

Un bel giorno, tra una lettera e l’altra, arrivò finalmente la notizia che mio fratello Angelo, compiuti i suoi sedici anni, sarebbe potuto partire. Era il 1952. Lo zio Fortunato aveva mandato a chiamare sua moglie Maria Antonia e a sua figlia Ana, e per completare il gruppo si decise che si poteva aggregare anche mio fratello Angel. Il progetto di mio padre andava avanti come previsto, e mentre mia madre soffriva sempre di più, in silenzio e nella sua solitudine, io diventavo sempre più l’uomo di casa. Lei andava sempre da un posto all’altro, tra il lavoro nella valle e il lavoro a casa. Devo confessare che la pulizia e l’ordine della casa non erano la sua priorità, perché il sostegno economico alla famiglia non le lasciava altro tempo. La cucina dove mangiavamo, aveva la stufa che affumicava e tingeva sempre tutto di giallo. Ogni tanto mia madre, con ciò che aveva, dipingeva le pareti. Gli strumenti a disposizione per fare questo lavoro erano un grosso ramo, abbastanza lungo da raggiungere i soffitti della casa, con in cima alcuni fiori di mais ben legati. Il pennello fatto in casa veniva immerso nella calce viva sciolta nell’acqua, e così si sfogava mia mamma con tutta la sua anima, il suo silenzio, con i ricordi di suo marito dall’altra parte del mondo, dipingendo i muri, schizzando i pavimenti, i mobili e tutto ciò che la incrociava in questo benedetto mondo. Lo avrebbe ripetuto anni dopo, quando il fumo avesse lasciato di nuovo le sue tracce, ancora una volta sperando che mio padre decidesse che era arrivato il momento giusto per il ritorno e stare di nuovo tutti insieme.

Lavorare in fattoria e fare qualsiasi altro tipo di lavoro era un fatto naturale per mia madre, e per quanto potesse essere pesante, lei non si affliggeva e lo svolgeva in scioltezza. Se c’era qualcosa di importante che la preoccupava, erano le tasse che doveva pagare. In Italia la maggior parte dei beni era tassato ed era necessario essere puntuali nei pagamenti perché in caso contrario, si rischiava la confisca del bene tassato. Si dovevano pagare tasse sulla casa, sui terreni, e sugli animali, facevano eccezione solo i cani da guardia e le galline. Ogni volta che arrivava la data di scadenza e mia mamma non era stata in grado di raccogliere tutti i soldi necessari, prendeva un po’ di lana dal materasso, la scambiava con denaro, pagava la tassa e infine riempiva gli spazi vuoti nel materasso con le foglie delle pannocchie di granturco. Con nostra madre ci sentivamo al sicuro e protetti da tutto, e non era che la mancanza di suo marito le avesse aguzzato l’ingegno. Aveva una capacità innata nel superare le difficoltà, e mio padre trasse sempre vantaggio dalla sua abilità di farsi avanti.

In ogni modo, il mondo continuava a girare e ogni 16 di Agosto in paese si svolgeva la festa del santo patrono: San Rocco. Tutti uscivano in strada e per due o tre giorni le persone dimenticavano i loro problemi e le loro preoccupazioni, mangiavano e bevevano insieme, con un sentimento di affetto comune e senza brutti ricordi. La festa era finanziata in parte con la vita di un maiale che lungo l’anno era lasciato girare libero in paese, nutrito dalla generosità dei vicini e infine macellato con gioia e venduto a tranci. Una volta era persino venuto il vescovo alla celebrazione, e ci sarebbe pure tornato se solo non fosse stato sorpreso dalla velocità dei cavalli che trainavano la carrozza per portarlo dalla stazione ferroviaria al paese. La persona incaricata di prenderlo era ben nota per la sua capacità di condurre, usando un suo metodo poco convenzionale, ma efficace. Questi, infatti, per tutto il percorso copriva i cavalli di insulti ben articolati, tirando in ballo antenati, parti intime, tutto il genere umano con i suoi Cristi, madri e altri dei. Peccato o virtù, il fatto era che questo suo modo così creativo risultava efficace e i cavalli correvano a una bella velocità.

Nondimeno, quando gli fu affidato il compito di portare il vescovo in paese, fu implorato fino all’ultimo minuto di non usare la sua tecnica in questo viaggio e di guidare la carrozza più lentamente se fosse stato necessario. Tuttavia l’impazienza del vescovo fece tornare il conducente al suo metodo per affrettare il passo. Dopo un po’ il vescovo aveva iniziato a lamentarsi con discrezione per la lentezza dei cavalli ed il conducente disse che avrebbe potuto farli andare più veloce, ma poiché avrebbe usato parole, insulti e bestemmie inadeguate all’onorabilità del passeggero, stavolta non avrebbe messo in pratica il suo metodo senza il permesso del vescovo. Il vescovo forse per un po’ di malessere, a causa del caldo, della polvere e del ritardo, gli diede il via libera. Non appena arrivarono in città, il vescovo confessò di non aver mai sentito da cristiani, neppure da quelli più rivoltosi e ribelli, atrocità così disparate, di tale livello di oscenità, ma allo stesso tempo così efficaci.

Alla celebrazione non partecipavano solo membri della Chiesa, era immancabile la banda musicale. I musicisti venivano a suonare a condizione che i paesani mettessero a disposizione la casa, in modo che a nessun suonatore mancasse vitto e alloggio. Ma questa organizzazione occasionale di assegnazione delle stanze non era esente da errori, alcuni dei quali erano pericolosi. Una volta, al termine di una delle notti della festa patronale, Geremia Ricci e sua moglie tornarono a casa. Stavano andando a letto quando improvvisamente e per loro sorpresa trovarono addormentati nel loro letto matrimoniale due musicisti. Questi infatti erano andati a finire nella casa sbagliata e siccome le porte delle case non si chiudevano a chiave, semplicemente avevano aperto la porta e si erano coricati a letto. Ancora oggi, in paese, le persone non chiudono a chiave le porte. Il fatto è che quei due musicisti erano entrati in casa e si erano messi comodamente a dormire. Geremia Ricci all’inizio pensò che fosse uno scherzo della moglie, ma poi prese il suo fucile e lo puntò alternativamente all’uno e all’altro minacciandoli di morte. “Siamo i musicisti, siamo i musicisti”, dissero più volte fino a quando Geremia capì la situazione. Tra i tanti episodi tragicomici che si ripetevano da un capo all’altro del paese, così tipici e tradizionali da rispecchiare i film del genere commedia all’italiana, di uno ne fui protagonista a cinque anni. Si affacciò alla porta di casa una ragazza di quindici anni, più o meno, chiedendo se qualcuno avesse visto o trovato un suo anello che aveva perso. Come per un’illuminazione del destino, pensai che fosse il momento giusto per vendicarmi, a modo mio, di una bambina della mia età che di solito mi prendeva in giro. Perciò rivelai, con moderata convinzione e nessuna innocenza, che avevo visto quando la bambina in questione l’aveva raccolto da terra e che sicuramente lo aveva ancora con sé. Il risultato quasi immediato fu che tutti, io, mia madre, la bambina falsamente accusata, i suoi genitori, dovemmo recarci al commissariato. Ben presto dovetti svelare la mia bugia, e questo provocó credo il mio primo serio turbamento di coscienza. Mia madre rimproverò rabbiosamente le autorità per aver preso in seria considerazione le mie parole e aver creato una seccatura così grande su un fondamento così insignificante. Fatto sta che l’anello in questione non si trovò, ma il mio inutile rammarico e il mio avvilimento per l’accaduto meritarono l’intervento del mio padrino Antonio Ricci. Era il padrino mio e delle mie sorelle e di mio fratello, e il mio cuore e i miei ricordi sono ancora profondamente legati a lui perché ci considerava e ci proteggeva, durante l’assenza di mio padre, con consigli e altre questioni più terrene. In quell’occasione si offrì di portarmi a casa sua per alcuni giorni, per distrarmi e liberare la mia mente colpevole. Fu una settimana indimenticabile. Carmela, la moglie del mio padrino, mi coccolò con con la stessa tenerezza con la quale aveva coccolato i suoi figli in tenera età, visto che ormai erano già più grandicelli. Avevano un camion e mi portarono a spasso con loro ovunque andassero. Mi mostrarono diverse parti del paese e fu per me come visitare altre parti del mondo. Quando, nel percorso, ci avvicinavamo al mio quartiere, pregavo il mio Dio interiore, che non fosse il momento di tornare a casa.

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