Michele Amabilino - L'Antica Stirpe

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E' un romanzo di fantascienza che riprende le teorie di Einstein e di Crick, un libro scritto con rigore scientifico, di avventura di dramma umano. Un romanzo a cinque stelle con recensioni e valutazioni.
Dario è un vecchio ospite in una struttura psichiatrica in una località del Piemonte. Intervistato da un giornalista scientifico che scrive su UFO e Extraterrestri, racconta una strana storia. Durante il secondo conflitto mondiale quando era giovane è stato rapito con due suoi amici e portato in un mondo lontano. Lo scopo : inseminare un pianeta giovane. Dopo molte avventure, aver conosciuto degli androidi costruiti dall'antica razza aliena aver visitato un pianeta morente ritorna con i suoi amici sulla Terra.

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Frontespizio Michele Amabilino L’Antica Stirpe

Copyright Titolo | L'antica stirpe Autore | Michele Amabilino ISBN | 9788873043225 Prima edizione digitale: 2014 © Tutti i diritti riservati all’Autore Seconda edizione digitale: 2017 Tektime traduzionelibri@tektime.it www.traduzionelibri.it Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

Capitolo

Michele Amabilino

L’Antica Stirpe

A Francis Crick

Titolo | L'antica stirpe

Autore | Michele Amabilino

ISBN | 9788873043225

Prima edizione digitale: 2014

© Tutti i diritti riservati all’Autore

Seconda edizione digitale: 2017

Tektime

traduzionelibri@tektime.it www.traduzionelibri.it

Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

Giugno 1998, in una località del Piemonte...

Era una stradina stretta e asfaltata, che serpeggiava tra prati coltivati a mais e a grano. C’erano file di alberi frangivento e a perdita d’occhio, in lontananza, una catena montuosa di color azzurro con qua e là puntini bianchi di case e villette. Il traffico sulla stradina era scarso, attraversata di rado da qualche macchina, trattori e biciclette. Si poteva notare qualche maratoneta o ciclista per hobby.

C’era un’auto di grossa cilindrata, di color avorio che procedeva a media andatura. Una mercedes, il cui proprietario era un uomo di mezz’età dai modi colti. La macchina si dirigeva verso una costruzione, in lontananza, insolita per il suo stile, che non somigliava affatto a una azienda agricola o a una abitazione privata. Vista da vicino sembrava più strana perché aveva finestre blindate e servizio di sorveglianza a un cancello.

L’uomo che era alla guida dell’auto, molto distinto e di età matura, si qualificò alla sorveglianza come un giornalista e disse di essere atteso per un’intervista. Riconosciuto, gli fu aperto il cancello automatico, così l’auto sostò all'interno di un ampio parcheggio riservato al personale e ai visitatori. All’interno trovò una seconda costruzione, piuttosto bassa, di colore bianco, anche questa con finestre blindate.

C’erano stradine asfaltate, aiuole, siepi, alberi. Il tutto ben curato. Qua e là segnaletiche ai reparti e un grande quadro generale dei vari interni e dell’intero equipe medico.

Dunque era una clinica, piuttosto decentrata rispetto alle altre di città, e che mostrava una struttura moderna, funzionale e piuttosto... austera. Era chiaro che il giornalista si trovasse in una clinica per motivi professionali in quanto egli scriveva per una rivista, famosa e internazionale, specializzata in temi scientifici.

L’uomo scese dall’auto, si tolse gli occhiali da sole e prese sotto braccio una borsa da lavoro. Diede una rapida occhiata in giro e poi si diresse spedito verso una direzione. Era evidente che era stato già in quel posto e lo si capiva per il suo modo di fare sicuro. Giunto davanti una porta a vetri l’aprì ed entrò in una ampia sala.

L’ambiente era modernamente arredato con gusto signorile ma ugualmente freddo come lo sono in genere le cliniche o gli uffici commerciali.

Si rivolse cortesemente alla portineria interna e disse laconico: «Sono Tito Arnaldi, giornalista, per il solito colloquio...»

Il portiere visionò distrattamente il tesserino, annuì e gli indicò una porta poco lontana. Aggiunse: «La stanno aspettando» dopodiché fece un numero interno per comunicare con qualcuno.

Raggiunta una stanza che sembrava un piccolo salotto, il giornalista si sedette su di una poltroncina e prese da un tavolo con il piano di vetro, poco vicino, una rivista. La sfogliò distrattamente. Ed ecco in quell’istante giunse un giovane con pizzetto e baffi, di media statura, con un camice bianco e una targhetta con i suoi dati inserita e ben in evidenza.

I due si salutarono cordialmente come vecchie conoscenze.

Il medico: «Il paziente ha avuto un’altra crisi, è stato sedato e si trova ancora nella sua stanza imbottita ma lo farò uscire e darò disposizioni perché venga accompagnato in questo salotto per il solito colloquio. Attenda prego.» Detto questo si allontanò.

Dopo un’attesa di qualche minuto nella sala dei colloqui giunse un infermiere e un ricoverato.

Quest’ultimo era un vecchio mal ridotto, magro e dall’andatura stanca. Appena vide il giornalista si illuminò in volto, contento di vedere qualcuno che provenisse da fuori, dalla società. Il malato e il giornalista si sedettero di fronte, vicino a un tavolino, l’infermiere si allontanò un po’ ma rimase nella stanza, guardingo.

Si sentì la voce del sorvegliante dell’istituto con un tono poco professionale: «Mezz’ora, non di più, o si stanca troppo e magari dà i numeri...»

Il vecchio fece una smorfia di disgusto, di chi contesta tutto, anche la sorveglianza dei “matti” perché lui non si sentiva un matto ma una vittima della malasanità.

«Ci osservano, ci spiano» bisbigliò il vecchio al giornalista con un tono di complicità. «Vedi, ci sono telecamere dappertutto.»

Infatti quel posto era così sorvegliato da far invidia a una banca o a una galleria di quadri d’autore. C’erano elementi pericolosi, reclusi, individui cui la scienza medica si era arresa definendoli irrecuperabili. In quel posto isolato dal mondo, apparentemente lustro e confortevole, sopravvivevano persone che il mondo rifiutava da un pezzo, di cui sembrava vergognarsi. Era una prigione? Una casa di cura oppure un obitorio per viventi? Forse tutte quante le cose. Ma che cosa aveva fatto di tanto patologico quel vecchio che a stento si reggeva in piedi, chissà da quanti anni sepolto vivo in quella struttura?

Nessun crimine, forse qualche episodio di alienazione comportamentale, forse qualche comportamento strano, eccentrico, forse un modo di vivere e di vedere le cose del mondo in rotta di collisione con la comune ragione.

«Dario, permetti che ti dia del tu, tanto siamo amici ormai» così gli si rivolse il giornalista, con voce paziente. «Sono venuto a trovarti ancora, perché mi interessa la tua storia, tornerò ancora, e ti porterò altra cioccolata che ti piace tanto...»

Il vecchio gli rispose con fare nervoso:

«Sì, sì, torna ancora e portami altri blocchi di carta e delle matite. Sai, io disegno spesso. Mi piace tanto...»

«D’accordo, d’accordo ed ora raccontami della tua esperienza. Il tuo incontro del IV tipo.»

«Ah, è così che si chiama? Ma guarda che strano... La mia avventura è accaduta tanto tempo fa, quando ero ancora giovane. L’ho raccontata tante volte a tanti medici ma loro non mi credono, dicono che sono sogni, allucinazioni. Ma come è possibile? A proposito... l’altro giorno guardandomi su di un vetro ho visto la mia immagine riflessa, non è che mi guardo spesso perché di specchi non ce ne sono, dicono per motivi di sicurezza, ebbene ho visto un vecchio. Sono diventato vecchio, non mi riconosco più, non ricordo quanti anni ho e in che anno siamo. Ho girato così tante case di cura» sospirando.

Il giornalista lo fissò con occhio critico, studiando quei lineamenti marcati, guardandogli dentro gli occhi come per cercare un briciolo di lucidità che i medici sostenevano da tempo smarrita; nonostante tutto, si convinse di dare credito a quel matto, perché così era stato definito da quella struttura e da tante altre, per tanti anni e senza speranza.

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