Michele Amari - Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II

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Michele Amari

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II

LIBRO TERZO

CAPITOLO I

Al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di Sicilia, la musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di attività, progresso e discordia. Nel primo Libro, toccammo gli ordini generali dei Musulmani, e come si assettarono in Affrica. Or occorre divisare più distintamente alquanti capitoli di lor dritto pubblico, e l'applicazione che sortirono appo la colonia siciliana.

Farem principio dal reggimento politico. Il dispotismo che prevalse con la dinastia omeîade, e si aggravò con l'abbassida, non era bastato ad opprimere le due aristocrazie, gentilizia e religiosa, tanto che non prendessero parte, secondo lor potere, alla cosa pubblica. Fecerlo in due modi; cioè con la interpretazione dottrinale della legge, e con lo smembramento dello impero: a che si è accennato, trattando dell'Affrica. 1 1 Veggasi il Libro I, cap. III, VI. Secondo le teorie distillate per man dei dottori, 2 2 Oltre il Corano e la Sunna, ossia il supposto precetto divino e lo esempio del Profeta, la legge si fondava sullo igtihâd , che vuol dire litteralmente “sforzo” degli interpreti ed esecutori ad applicare lo statuto ai casi non provveduti espressamente. dagli eterogenei elementi della legge musulmana, lo impero, era ormai, in dritto e in fatto, debole federazione di Stati, impropriamente chiamati province. Troviamo in Mawerdi, egregio pubblicista del decimo secolo, doversi tenere lo emir di provincia come delegato della repubblica musulmana, non del califo. 3 3 Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa , lib. III, edizione di Enger, p. 51. Ei veramente esercitava tutta l'autorità sovrana, fuorchè la interpretazione decisiva dei dommi. 4 4 Mawerdi, op. cit., lib. I, p. 23, enumera così i dritti dello imâm , ossia califo, pontefice e principe: 1º Conservar la fede secondo i dommi cardinali e le interpretazioni concordi degli imâm precedenti, e ricondurre all'ortodossia i novatori, con la ragione o con la forza; 2º Far eseguire le leggi civili e criminali; 3º Vegliare alla sicurezza interna; 4º Fare osservare i precetti religiosi; 5º Difendere il territorio; 6º Portar guerra agli Infedeli; 7º Riscuotere le legittime entrate pubbliche; 8º Pagare gli stipendii e spese pubbliche; 9º Adoperare capaci e fidati ministri; 10º Trattar dassè le faccende più rilevanti. Tolti questi due ultimi paragrafi che contengono consigli di condotta, non ordinamenti di diritto pubblico, gli altri doveri dell' imâm non differiscono da quei dello emiro, che nella potestà d'interpretare i dommi. Allo emir di provincia era dato:

Ordinare lo esercito, distribuire le forze nei luoghi opportuni, e fissare gli stipendii militari, quando non lo avesse già fatto il califo;

Vegliare all'amministrazione della giustizia ed eleggere i câdi e gli hâkem , magistrati simili al câdi nelle città minori;

Riscuotere tutte le entrate pubbliche, pagar chi di dritto su quelle, ed eleggerne gli amministratori;

Difendere la religione e la società;

Applicare le pene ad alcuni misfatti, nei limiti che appresso si descriveranno;

Presedere alle preghiere pubbliche, in persona o per delegati;

Avviare e sovvenire i pellegrini della Mecca;

E, se la provincia stesse in su i confini, far la guerra ai vicini infedeli, scompartire il bottino ai combattenti e serbarne la quinta a chi appartenesse. 5 5 Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 47, 48. Questo autore aggiunge che l'uficio di emiro poteva essere generale ovvero speciale; sendo lecito destinare un emiro alle cose di guerra e di polizia, come noi diremmo, e un altro all'azienda e giurisdizione; op. cit., p. 51. Ma tal caso sembra avvenuto assai di rado. Mawerdi stesso, p. 54, dice che nelle province conquistate di recente l'uficio di emir, di dritto, diveniva generale; nè si potea diminuirne il territorio, nè l'autorità. Le ragioni che ne allega Mawerdi son fondate su l'assioma, che il ben della religione e della repubblica musulmana va anteposto al capriccio del califo.

Il popolo, dunque, di una parte del territorio musulmano costituita in provincia e governata da un emiro, non riconosceva il califo nè come legislatore nè com'esecutor della legge; non vedeva altra autorità che dello emiro; e costui, alla sua volta, non era tenuto ubbidire che alla legge ed alla propria coscienza; nè dovea rispettare il fatto del principe, fuorchè nel caso degli stipendii militari già determinati da esso. Il principe eleggeva e rimovea d'oficio l'emiro, come il câdi, senza poter dettare all'uno i provvedimenti, nè all'altro i giudizii; talchè tutta la amministrazione civile, militare, ecclesiastica e giudiziale si conducea come in oggi quella sola della giustizia negli Stati di Europa che abbiano magistrati amovibili ad arbitrio. Bene o male, era conseguenza logica della teocrazia. Se avvenia che il califo sforzasse lo emiro ad alcun provvedimento con minaccia di deposizione, ciò non costituiva norma d'ordine pubblico; era abuso di chi comandava e viltà di chi obbediva. Similmente il califo celava, quasi fosse colpa, la vigilanza sua sopra lo emiro, affidandola al direttor della posta. 6 6 L'oficio della posta si chiamava appo gli Arabi berîd , trascrizione della voce latina veredus . Par che i Sassanidi abbian tenuto la stessa pratica in fatto di alta polizia; come l'accennai nella versione del Solwân d'Ibn-Zafer, nota 24 al cap. V, p. 313, 314. Alla effettiva autorità rispondeano le apparenze, e in particolare la cerimonia della inaugurazione, nella quale si prestava giuramento all'emiro non altrimenti che al califo. 7 7 Il Baiân , tomo I, p. 75, e Nowâiri, Storia d'Affrica , versione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères , tomo I, p. 588, fanno menzione del giuramento ( biâ' ) prestato al nuovo emir di Affrica, Nasr-ibn-Habib (791). La moneta, nei primi due secoli dell'islamismo, si coniava spesso col solo nome dell'emiro, per esempio di Heggiâg-ibn-Iûsuf in Irak, di Mûsa-ibn-Noseir in Affrica e Spagna, e di Ibrahim-ibn-Aghlab in Affrica. 8 8 Ibrahim non era al certo independente in dritto più che gli altri emiri di provincia. Per le monete di Heggiâg non occorre citazione. Su quelle di Mûsa, va ricordato che la leggenda talvolta fu latina, come si scorge dalle lettere di M. De Saulcy, Journal Asiatique , série III, tomo VII, p. 500, 540 (1839), e tomo X, p. 389, seg. (1840). Sì larga essendo la potestà legale del governator di provincia e impossibile di tarparla nei paesi lontani dalla metropoli, e stanziando in quelli la nobiltà armata, ognun vede con che agevolezza le province si poteano spiccar dall'impero, sol che le milizie parteggiassero per l'emiro; nel qual caso tornava inefficace la sola ragione lasciata al califo, cioè dargli lo scambio. Così nacquero le dinastie dei Taheriti in Persia, degli Aghlabiti in Affrica, dei Tolûnidi in Egitto e non poche altre. Cotesti novelli principi alla lor volta, se mandavano emiri nelle province conquistate, si trovavano rispetto a quelli nelle medesime condizioni e peggiori, che i califi verso di loro; non avendo la dignità del pontificato, nè distinguendosi pur nel titolo dai governatori delle proprie colonie.

Le esposte norme di dritto pubblico si osservarono in Sicilia, infino ai tempi del tiranno Ibrahim-ibn-Ahmed, e se alcuno le trasgredì, furono i coloni più tosto che il principe. Gli emiri dell'isola facean da sè paci e accordi e scompartivano il bottino, a quanto si può spigolare tra gli aridi annali musulmani; nè si trovan vestigie di comando esercitato in Sicilia dai principi d'Affrica. Il titolo dell'oficio or si legge emîr , or wâli , e, nei primordii della colonia, sâheb ; la qual voce par che denotasse il fatto d'una insolita autorità, e quasi independente, come dicemmo nel secondo Libro. 9 9 Capitolo V, p. 296.

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