Il cumulo di così tante avversità in poco tempo, mi portarono, un giorno, in preda un po’ dell’infelicità e un po’ della ribellione, a gridare a pieni polmoni: “Torno in Italia”, e uscii di casa, assolutamente determinato nel mio intento. Corsi per un paio di isolati verso dove credevo si trovasse il fiume, e pensavo: dopo il fiume viene il mare e dopo il mare sicuramente c’è di nuovo l’Italia. Mio padre mi lasciò andare per alcuni isolati e poi mi raggiunse. Non ha neanche provato a consolarmi. Tirato per un orecchio tornai alla solita vita.
Piano piano, così come mia madre dovette imparare a rassegnarsi a certe cose, anche io imparai a fare lo stesso. Mio padre veniva a tavola senza l’intento di essere severo, ma finì per assumere abitudini che lo facevano apparire tale. Una era quella di sedersi a tavola con la cintura allacciata, ma senza farla entrare nei passanti, per poter agire con prontezza, senza lasciare scampo, quando serviva un castigo. Ho ancora molti ricordi dei metodi adottati da mio padre per correggere le deviazioni disciplinari. E non li giudico con l’ottica attuale. Anzi, non li giudico del tutto. Erano situazioni e metodi di quei tempi, in quei tempi hanno avuto il loro effetto e mi hanno educato e formato in qualche modo.
A volte mio fratello Angelo usava l’espressione: “me cache en diè”, e senza aver affatto capito quando si poteva o meno usare, un giorno ebbi la brillante idea di ripeterla a tavola. Ebbi la sfortuna di avere mio padre seduto accanto, che, con la velocità di un lampo, mi stampò uno schiaffone in faccia, facendomi arrivare fino agli angoli più remoti del cervello che non era consigliabile ripetere quella frase, che, a quanto pare, era permessa solo ai grandi. Scese il silenzio. Anche da parte mia. Quella frase non l’ho più ridetta.
Dover condividere faccende domestiche con mia sorella Giuseppa non era per niente facile. Faceva fatica a mettersi in moto e a proseguire con continuità. Rispettare gli impegni non era per lei. I miei genitori avevano comprato una pompa per l’acqua, che serviva a riempire un serbatoio per la cucina e il bagno. In questo modo, mio padre aveva rimpiazzato la fontana di Montaquila, collegando la pompa ad un tubo che portava l’acqua in un serbatoio in fibrocemento di duecentocinquanta litri, collocato sulla terrazza di casa. Erano piccole innovazioni, fatte per introdurre un minimo di comodità in casa e anche per addolcire un po’ il cuore alla mamma. Mia sorella ed io avevamo il compito di pompare, quattrocento o cinquecento volte a ciascuno, la quantità sufficiente a riempire il serbatoio. Ma non tutto andava come doveva, per via di Giuseppa, che non arrivava mai alla quota stabilita e sempre si approfittava di me, mercanteggiando e caricandomi di pompate che poi non restituiva a parificare gli sforzi. La mamma non tardò ad accorgersene e la costrinse a fare il lavoro che doveva e anche di più per compensare la furbata. Giuseppa quindi si arrabbiava e con tutta la sua furia, finiva per pompare più del necessario, facendo traboccare inutilmente il serbatoio.
Una domenica pomeriggio presi in prestito la bicicletta di mio padre. Di solito la usava per andare al lavoro, ma quella domenica, per la rotazione dei turni di lavoro, gli toccava il turno di notte. Appena salii sulla bicicletta, sembrava che si rivoltasse contro di me. La catena saltava continuamente, la risistemavo riempiendomi le mani di grasso. Tutto inutile. Dopo aver ripreso un po’ ad andare, tornava a sganciarsi dalla corona e dal pignone. Ad ogni guasto mi sentivo ribollire il sangue e alla quarta o quinta volta non ce la feci più. Senza pensare alle possibili conseguenze gettai la bicicletta per terra e iniziai a saltare sulle ruote, piegando raggi e cerchioni, danneggiandola fino a renderla inutilizzabile. In quel preciso momento mi resi conto delle proporzioni della mia rabbia, ma, soprattutto, mi immaginavo mio padre al momento di doverla usare. Tornai a casa al cader della sera, trascinandomi a fianco, in qualche modo, la bicicletta. Appoggiai la bicicletta su una colonna di cemento ed entrai in casa cercando di dimenticare quello che era appena successo, ma mi fu impossibile. Nessuno notò l’incidente. Non ebbi il coraggio di dichiararmi colpevole e tacqui aspettando il corso degli eventi e lo scatenarsi della tragedia. Mio padre doveva andare a lavorare alle dieci di sera. Finito di cenare, alle nove, disse a mamma che andava a sdraiarsi un po’ e di chiamarlo alle nove e mezza. Alle dieci meno venti la mamma lo chiamò: “Giovanni, sono le dieci meno venti”. Mio padre si alzò subito e chiese se la bicicletta avesse le gomme ben gonfie. Il conto alla rovescia era arrivato alla fine. Davvero. Ebbi il tempo sufficiente prima di sentirlo precipitarsi e urlare tra il cielo e la terra di Villa Clara: “Lo ammazzo”. Entrò in casa come una tempesta, con la cintura in mano e colpì tre, quattro volte il rigonfiamento nel mio letto. Non si fermò di più perché sarebbe arrivato tardi per il suo turno in fabbrica. Quindi con lo stesso impeto con cui era entrato, uscì, giurando che avrebbe continuato a fare giustizia la mattina dopo.
La mamma entrò subito nella stanza. Sapevo che, almeno per ora, il peggio era passato e pensai che l’espediente di infilare nel letto, al posto mio, il cuscino nascosto con la coperta, aveva funzionato. Quando vidi mia madre, mi affacciai da sotto il letto e le chiesi con aria compiaciuta: “È uscito?”. La mamma, in tutta risposta, mi diede un ceffone che mi fece sbattere la testa contro la trave del letto. Comunque, il bilancio fu soddisfacente, mi ero immaginato di peggio.
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