Michele Bornaschella - La soddisfazione di avercela fatta

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"La mia storia d'immigrante è una delle tante, così semplice e delicata come qualsiasi altra storia di immigrante italiano. Ma con così tanta grinta e volontà di superare se stessi che è ciò che finisce per distinguere gli uni dagli altri e, soprattutto, con la soddisfazione di avercela fatta. Non cerco riconoscimento pubblico, tantomeno voglio superare o confrontarmi con i miei simili, è la soddisfazione di aver superato me stesso. Potró ritenermi soddisfatto se posso mettere in chiaro che ho superato me stesso perché è questa la sensazione che ho ogni mattina ed ogni sera e continuo a provarci giorno dopo giorno" (Michele Bornaschella).
"La vita aveva in serbo per me la fiducia di Michele nel poter portare a termine questa storia. E non solo: l'opportunità di poter chiedere, così come lo spazio necessario che mi è stato concesso per poter immergermi nei suoi sentimenti e poter conoscere non solo lo strettamente necessario, ma anzi soddisfacendo ciò che la curiosità chiedeva per poter completare il panorama. Grazie a questo e quant'altro ho potuto intravedere una storia così emozionante che non credo che la stilografica abbia l'abilitá di poter dettagliare fedelmente" (Alberto Miramontes).

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Allo stesso modo si dividevano i terreni, e quando era necessario si ricorreva agli agrimensori e se non bastava, l’ultima parola della Giustizia dirimeva qualsiasi controversia.

Ogni famiglia aveva la sua cucina, dove si mangiava. Aveva anche una focolare a legna per poter cucinare e riscaldare la casa, e un forno per cucinare il pane e la pizza. di fianco c’era un fornello alimentato dalle braci del focolare. In un’altra stanza dormiva tutta la famiglia. E in altri locali c’erano il posto per tenere gli attrezzi per lavorare la terra e la stalla, normalmente occupata da una mucca, un mulo e un cavallo. La mucca per fornire il latte, il cavallo e il mulo per trainare il carro e lavorare la terra. C’era anche uno spazio dove immagazzinare tutte le conserve ottenute dal raccolto e dagli animali, dai quali si ricavava l’occorrente per mangiare e per commerciare quando ce n’era bisogno. Era comune vedervi un torchio con cui si macinavano le olive e si produceva olio, oppure si faceva il vino.

Non c’erano confini tra le famiglie, e tutti conoscevano segreti, chiacchiere, gioie e dolori di ognuno. Tutte le conversazioni arrivavano alle orecchie degli uni e degli altri, un po’ per l’inevitabile vicinanza ed un po’ per l’abitudine di parlare con urli che echeggiavano tra i muri di casa. Ad ogni modo, le comodità della casa erano sufficienti. Da una parte, perché sì e basta, e d’altro canto perché non se ne conoscevano altre. L’energia elettrica era arrivata in paese, ma oltre alla luce di notte, non esistevano altri tipi di apparecchiature da collegare.

L’intera casa è rimasta uguale fino ad oggi, troneggiante quasi sulla cima della montagna. Sedotto dalla sua maestosa semplicità, decisi, anni or sono, di comprarla da un intero gruppo di eredi, coi quali ho combattuto con differenti risultati, ma con l’obiettivo raggiunto. La comprai per un impeto sentimentale, anche se in seguito ho trovato scuse più razionali con cui mi sono convinto che la decisione impulsiva non era sbagliata. Come vedete, i salti tra il presente ed il passato sono inevitabili.

Verso il 1945, con l’avanzata dell’esercito nordamericano, fu l’inizio della fine della guerra. La gente abbandonò i rifugi in valle per tornare in paese, con una nuova sensazione di serenità che durò un paio di mesi in stretta convivenza coi soldati. Loro nel frattempo, distribuivano carne in lattina, cioccolato, cappotti, coperte e a modo di ringraziamento, le donne del paese, compresa mia madre, pulivano i loro vestiti. Questo compito era piuttosto fuori dal comune, visto che una volta immersi gli indumenti dei soldati in acqua calda, ne saltavano fuori pidocchi e impurezze di altro tipo. Tuttavia, tra la rassegnazione che la guerra aveva lasciato nella gente, e la silenziosa inclusione della sofferenza nella vita quotidiana, la verità era che la gestione delle risorse, per rudimentale che fosse, era scesa a livelli difficili da sopportare. Il razionamento alimentare costringeva mio padre ad andare a lavorare mietendo il grano e svolgendo altre incombenze, solo per essere pagato con un piatto di cibo. Perfino a queste condizioni, sempre più spesso non si aveva neanche questo. La povertà si faceva sentire sempre più crudelmente, ma continuava ad essere sopportata con signorile dignità. Era sempre più frequente vedere i vicini con toppe nei vestiti. I miei raccontavano perfino di aver visto un uomo portare senza imbarazzo una camicia bianca con una toppa rossa, la povertà di quest’uomo era arrivata al punto di non avere nemmeno un pezzo di stoffa del colore della camicia strappata, eppure, fatto il rammendo, sfoggiava fieramente la sua camicia riparata.

Poi la nostra famiglia e altre nel paese, col necessario e lungo iter burocratico e approfittando dei benefici concessi dal Piano Marshall promosso dagli Stati Uniti, ricevettero piccoli risarcimenti che tendevano a correggere le perdite di oliveti, animali e alcuni danni alle abitazioni. Sebbene l’importo coprisse solo una parte delle perdite e dei danni causati dalla guerra, fu ben accolto e apprezzato sinceramente.

Ma non erano gli unici danni dei giorni di guerra. Alcuni si risolvevano con l’intervento di membri del clero. Con molta pazienza intervenivano come mediatori tra vicini le cui proprietà erano state messe a soqquadro dai bombardamenti o dalle incursioni militari. Utensili semplici come una pala o una casseruola, finiti nella casa del vicino, originavano risse per dirimere la controversia.

Questo tipo di conflitti rappresentava il carattere stesso del paese, dove le gravi inimicizie irrisolte diventavano ostilità senza fine, generazionali. Allo stesso modo le amicizie diventavano fratellanza infinita con regole di fedeltà perduranti per generazioni.

Le cause delle controversie potevano essere per motivi politici, perché l’animale d’uno aveva rovinato il raccolto dell’altro, per amori contrastati o promesse non mantenute. Gli scenari di questi confronti erano i più diversi, ma nella memoria collettiva in generale e nella mia in particolare, uno è rimasto ben impresso.

Una domenica, all’uscita da messa, una donna in gravidanza avanzata, si piazzò davanti a colui che non aveva adempiuto al suo dovere e mantenuto le promesse. Presto la donna si rese conto dell’inutilità della discussione, ma non aveva immaginato che la reazione premeditata che andava maturando in tante notti insonni, diventasse ora così giustificata. L’uomo la disprezzò, l’insultò e cercò di spingerla via, per continuare per la sua strada. Fu l’ultima cosa che fece. La donna si sentì ribollire il sangue e segnare definitivamente il suo destino. Dal vestito estrasse una lama di dimensioni adeguate alla tragedia e trafisse il responsabile senza nemmeno lasciargli il tempo sufficiente di comprendere di morire. Lei ebbe il suo bambino in carcere. Il bimbo è cresciuto, ha studiato ed è diventato un brav’uomo, si è laureato in Commercio Internazionale e attualmente risiede a Parigi. Torna spesso in paese e ho avuto il piacere di conoscerlo.

Capitolo II

L’origine dell’immigrazione

Tra felicità e tristezza, il problema di migliorare la situazione economica diventava sempre più difficile.

Nella nostra famiglia, tuttavia, abbiamo trovato un’oasi inaspettata, un pizzico di fortuna che, seppur da piccoli episodi, ricavandoli dai ricordi molti anni dopo, ci tirò fuori dal profondo dell’anima la frase: “Ci ha cambiato la vita”.

Terminata la Seconda guerra mondiale e dopo essere emigrata negli Stati Uniti, tornò in paese Maria, una signora con cui avevamo complicati e lontani legami di parentela. Venne con lei un’amica di nome Amelia, imparentata allo stesso modo con altre persone del paese. Dopo qualche giorno, infettata dall’acqua, o dal cibo, o perché Dio ha voluto che si unisse per sempre alle nostre vite, Amelia sviluppò una reazione allergica che le causò una irritazione della pelle. Il medico che la curava, le prescrisse come trattamento, qualche bagno con l’acqua di una sorgente che sembrava contenere zolfo, particolarmente indicato per le malattie della pelle. Mio padre, che a quel tempo lavorava nel frantoio di famiglia dove erano alloggiate le due donne, tutti i giorni che Amelia rimase in paese, percorreva dieci chilometri per andare a prendere l’acqua medicinale, con botti di legno, dalla sorgente chiamata Solfatara di Pozzilli. Andava al mattino presto e lasciava le botti nella casa dove era ospite Amelia. Era puntuale e preciso tutti i giorni, finché dopo più di un mese, Amelia fu guarita. La donna ne fu molto riconoscente. Ripagò mio padre per le attenzioni ricevute, gesto molto ben accolto e gradito come si deve, e al momento di lasciare l’Italia per tornare negli Stati Uniti aggiunse: “Giovanni, grazie mille! Finché vivrò, alla tua famiglia non mancherà nulla”.

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