Michele Bornaschella - La soddisfazione di avercela fatta

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"La mia storia d'immigrante è una delle tante, così semplice e delicata come qualsiasi altra storia di immigrante italiano. Ma con così tanta grinta e volontà di superare se stessi che è ciò che finisce per distinguere gli uni dagli altri e, soprattutto, con la soddisfazione di avercela fatta. Non cerco riconoscimento pubblico, tantomeno voglio superare o confrontarmi con i miei simili, è la soddisfazione di aver superato me stesso. Potró ritenermi soddisfatto se posso mettere in chiaro che ho superato me stesso perché è questa la sensazione che ho ogni mattina ed ogni sera e continuo a provarci giorno dopo giorno" (Michele Bornaschella).
"La vita aveva in serbo per me la fiducia di Michele nel poter portare a termine questa storia. E non solo: l'opportunità di poter chiedere, così come lo spazio necessario che mi è stato concesso per poter immergermi nei suoi sentimenti e poter conoscere non solo lo strettamente necessario, ma anzi soddisfacendo ciò che la curiosità chiedeva per poter completare il panorama. Grazie a questo e quant'altro ho potuto intravedere una storia così emozionante che non credo che la stilografica abbia l'abilitá di poter dettagliare fedelmente" (Alberto Miramontes).

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Tornando ai piccoli frammenti che sono stati il germe di questa storia, gli aneddoti sono apparsi e si sono accumulati nel tempo con la stessa velocità e la stessa incoscienza degli anni trascorsi. Mio padre mi raccontava molte storie: sue, dei suoi parenti ed amici. Sempre lo ascoltavo attentamente e soprattutto sbalordito dall’enorme quantità. Aveva sempre una nuova storia da raccontare. Una volta gli dissi del mio stupore e mi rispose che per il mio modo di essere, anche io avrei avuto molte cose da raccontare. Mi disse che sarebbe successo non appena avessi raggiunto l’età e l’esperienza appropriate.

In questo momento della mia vita, mi capita di non voler raccogliere altri aneddoti. Dando un’occhiata al passato, vedo chiaramente il filo conduttore che unisce i successi e posso immaginare la storia al completo. Farò del mio meglio per mantenere un certo ordine cronologico e cercherò di essere moderato nell’esprimere le emozioni. Ma non posso garantirlo.

Fortunatamente ho viaggiato nel tempo collegando la sofferenza dell’ apprendimento al momento dell’applicazione delle esperienze. In modo tale che, innanzitutto, la testimonianza la staró dando a me stesso.

Cercando di descrivere la vita dell’immigrato, e particolarmente la vita della persona immigrata in Argentina, la descriverei come una vita divisa in due. É una storia di viaggi circolari. La mia immigrazione (o la mia emigrazione, a seconda da quale lato dell’oceano si stia leggendo), come quella di molti altri, continua con l’emigrazione di alcuni tra i propri figli. Nell’eventualità che ciò non accadesse, la vita dell’immigrato è comunque divisa in due. Seppur, come è successo nel mio caso, sia un fatto accaduto in tenera età. Un pezzo della tua vita rimane dall’altra parte dell’oceano, a chiedersi cosa sarebbe potuto succedere se lo sradicamento non fosse avvenuto, aspettando i momenti d’incontro, domandandosi nuovamente, così come sicuramente fece mio padre, se fosse stata o meno la miglior scelta, oppure come affermó mia madre –senza ombra di dubbio– che sicuramente non era stata una buona scelta, se le cose sarebbero state più facili o più difficili, da questa o dall’altra parte.

In fin dei conti, la vita è stata, e continua ad essere circolare. Crescere, perdersi, riprendersi, perdersi di nuovo, prendere fiato per poter andare avanti, rimettersi in piedi e soffrire di una stanchezza senza fine, cadere di nuovo, non deprimersi, piangere quanto basta per poter imparare, ridere il necessario per continuare ad essere ottimisti di indole, accettando le amarezze con disinvoltura, come una condizione irrimediabile della vita.

In questa avventura, per ora senza fine, ho sempre agito alla luce del sole, e, per quanto siano state insopportabili le conseguenze, non mi sono mai nascosto, né per ridere né per piangere, cose accadute entrambe quasi con la stessa frequenza.

Ci sono stati molti spettatori in tutti questi anni: amici fedeli, altri che non hanno creduto in me oppure che mi hanno sottovalutato, altri ancora che si sono rallegrati dei miei successi ed altri che stavano ad aspettare un mio nuovo fallimento. Alcuni sarebbero pronti ad aiutarmi ancora una volta ed altri gioirebbero della mia sventura.

“Fare” è molto difficile. Proporsi dei traguardi, mantenendo un certo ordine e avvicinando gli obiettivi sembra essere facile, ma ben presto gli ostacoli compaiono improvvisamente, crescendo in modo così naturale che sembrano essere uno scherzo del destino. Da un punto di vista più crudo e un po’ meschino, la politica economica ha sempre messo i suoi artigli e la politica in generale lascia dietro di sé delle conseguenze che soffriamo giorno dopo giorno, e questo finché la nostra partecipazione, la partecipazione della gente comune, non diventi massiccia, naturale ed efficace. Anche questo fa parte della mia testimonianza. La partecipazione è fondamentale, essenziale per poter cambiare il nostro destino ed essere ciò che veramente meritiamo. Se altre persone in altre latitudini raggiungono ciò che stanno cercando, perché non possiamo farlo anche noi? In quelle latitudini, con altri climi, altri terreni ed altri destini, ci sono esseri umani uguali a noi, con lo stesso sangue, lo stesso sudore, le stesse lacrime, che si superano quotidianamente, in modo naturale, senza grida ed urla, e la maggior parte delle volte ce la fanno.

E noi, ce la faremo? Ognuno di noi troverà la risposta al momento giusto, dal profondo della propria anima, dal proprio punto di vista, ma soprattutto senza mai rinunciare ad essere sinceri con sé stessi. Da parte mia, non potrei mai obbligare qualcuno a pensare contro i propri principi. L’unica cosa che posso fare è esprimere con parole la mia esperienza e tutto ciò che ho imparato da essa.

Spero di poterlo esprimere nel modo più chiaro possibile.

Capitolo I

Montaquila, il paese natale

Quasi settant’anni dopo, continuo a ripetere la stessa frase per localizzare il mio luogo di nascita, la mia origine: “Tra Napoli e Roma, tra l’Adriatico e il Mediterraneo”. É con queste parole che localizzo Montaquila nel mondo e in Italia.

Montaquila è un paese nella provincia di Isernia, nella regione del Molise, a ventuno chilometri dal capoluogo della provincia e a 464 metri di altezza sul livello del mare, a oriente della catena montuosa delle Mainarde e a sud del monte della Meta. Probabilmente esista da quando soffia il vento, ma la prima testimonianza dell’intervento umano la si puó trovare in alcuni documenti, circa l’anno 778. Lì compaiono le prime approssimazioni al suo nome Montem Aquilam, Montis Aquili nel 1150, o Mons Aquilus nel 1168. Alcuni lo traducono come Monte dell’Aquilone, riferendosi al vento del nord. D’altra parte, le prove fornite come valide indicano che queste terre appartenevano al vasto Monastero di San Vincenzo al Volturno. Successivamente, dovuto a vendite e donazioni varie, queste terre hanno avuto diversi proprietari ed eredi. Tra loro, Andrea d’Isernia, Giovanni Caracciolo e i suoi fratelli e Ugo di Rocca e i fratelli di quest’ultimo. Si presume che entro l’anno 1305 Andrea d’Isernia riuscisse ad acquistare tutti i territori di Montaquila, unendoli in una proprietà che in seguito ereditó Landolfo, il più giovane dei suoi figli e che divenne l’ultimo proprietario tra gli anni 1316 e 1325, anno in cui morí. La discendenza di Landolfo è incerta, ma si suppone che nella seconda metà del XIV secolo Montaquila fosse il feudo di una famiglia che alla fine adottò questo cognome. Si pensa che avrebbe potuto essere la stessa famiglia d’Isernia a usare questo nome sia per acquisire un titolo nobiliare, sia per distinguersi dai rami genealogici collaterali della famiglia d’Isernia.

I primi dati del censimento della popolazione risalgono al 1561, dove si contavano ‘i fuochi’ ovvero i camini e non le persone; in quell’anno ce n’erano 53, 50 nel 1608 e 55 nel 1669. Nel 1795, si contarono 590 abitanti, 790 nel 1848, 1271 nel 1861, 1706 nel 1907, 1857 nel 1911, attualmente sono 2600 abitanti, più o meno la stessa quantità di quando Dio mi mise al mondo il 5 Febbraio del 1948.

Come era solito a quei tempi, nacqui nella casa dei miei genitori, eredità di mia madre da parte della sua famiglia. Fui l’ultimo figlio che Giovanni Bornaschella e Filomena Ricci avevano deciso di portare in questo mondo. Anche se mia madre mi confidó, una volta, già adulto, con quel suo modo naturale, senza aggiungere frasi inutili, che il mio arrivo non era stato, diciamo, effettivamente pianificato. Insomma, quando nacqui i miei altri tre fratelli erano già arrivati, Ángel di undici anni, Livia di sei e Giuseppa di tre.

La nostra casa, più di settant’anni dopo, è ancora lì, ben piantata, in Via Piano 4 a Montaquila, paese che piano piano è sorto intorno alla montagna. Si deduce che è stata una pianificazione ben strategica. Guardava infatti a difendere gli abitanti poiché dall’alto si aveva la vista su coloro che dal basso tentavano di invadere in epoche remote. Anzi, la città aveva un enorme portone che metteva dentro al sicuro tutta la sua gente quando si serrava per la notte, e nessuno entrava o usciva, fino alla mattina seguente, quando iniziavano i soliti compiti, fondamentalmente lavori agricoli come la coltivazione della terra e l’allevamento degli animali. Non esisteva la disoccupazione a Montaquila. Tutti avevano qualcosa da fare ogni giorno e ad ogni istante. A Montaquila non c’erano, e non ci sono, industrie. La maggior parte delle cose e tutto ciò che era necessario per vivere si otteneva dalla terra e dagli animali. La valle solcata dal fiume Volturno era la terra più fertile. Tutti, compresa la mia famiglia, avevano i loro piccoli pezzi di terra lungo le sponde del fiume, e con un po’ d’astuzia e di intelligenza ne ricavavano quanto bastava. I frutti della terra si scambiavano con semplicità e affetto tra i vicini. Si barattava una cosa con l’altra, e le restanti si portavano a vendere nei paesi vicini, con diversa fortuna. Il valore di ogni cosa era stato fissato dalle vecchie generazioni, con un criterio sconosciuto e invisibile, ma che nessuno osava discutere, e tantomeno nessuno pensava che fosse necessario modificare queste regole invisibili: un prodotto di un certo gruppo o categoria era l’equivalente a due o tre dell’altro e così via, ogni cosa aveva il suo prezzo e si poteva commerciare in modo tranquillo. Il denaro era limitato, quindi veniva messo via in piccole quantità e usato solo per alcune occasioni importanti, e persino il dottore poteva essere pagato con una cesta di verdure o con altre cose o servizi, senza la necessità di dover usare del denaro. La raccolta del grano veniva portata al mulino. Parte di esso si lasciava lì, a modo di scambio equo, in cambio della farina che si portava a casa. Qualsiasi cosa potesse mancare a qualcuno, qualcun altro l’aveva. In questo modo tutti avevano il necessario. Addirittura si scambiavano le giornate di lavoro quando si andava a lavorare nelle terre altrui. Il tutto si svolgeva in uno stato di ordine e fratellanza e, in caso di controversie, queste non duravano a lungo, giacché la giustizia si faceva strada, anche in modo informale, e le dispute si risolvevano velocemente.

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