Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Guerra e pace. Ediz. integrale: краткое содержание, описание и аннотация

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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XVI

Percorsa tutta la linea dal fianco destro al sinistro, il principe Andrea montò verso la batteria, donde, secondo le parole dell’ufficiale di servizio, si potea scorgere tutto il campo. Si fermò all’ultimo dei quattro cannoni in batteria e scese di sella. Un artigliere in sentinella stava per mettersi sull’attenti, ma ad un cenno di lui, riprese a passeggiare davanti ai pezzi con andatura annoiata e monotona. Dietro la batteria, i carretti; ancora più indietro, i cavalli del treno. A sinistra, poco discosto dal quarto cannone, sorgeva una baracca, dalla quale partivano voci alte e animate di ufficiali.

Dalla batteria, scoprivasi veramente tutta la posizione dei Russi e gran parte di quella dei Francesi. Sull’orizzonte della collina prospiciente spiccava il villaggio di Schöngraben; dalle due parti, in tre punti, in mezzo al fumo dei fuochi, si distinguevano masse di truppe francesi, la maggior parte delle quali occupava, evidentemente, lo stesso villaggio e il versante opposto dell’altura, Ancora più a sinistra, velata dal fumo, qualche cosa che somigliava ad una batteria. Il nostro fianco destro stendevasi lungo una elevazione abbastanza ripida, che dominava le posizioni nemiche. La fanteria la occupava, e lontano, sull’estremo limite, si vedevano i dragoni. Nel centro, dove appunto era la batteria di Tuscin, il terreno scendeva in lieve declivio e poi risaliva verso il ruscello che ci separava da Schöngraben. A sinistra, le nostre truppe si appoggiavano ad un bosco, nel quale fumavano le cataste della fanteria che faceva legna. La linea dei Francesi era più estesa, ed appariva evidente che il nemico potea tentare con fortuna un movimento avvolgente. Alle spalle della nostra posizione, vaneggiava un burrone, che rendeva difficile un ripiegamento dell’artiglieria e della cavalleria.

Il principe Andrea, appoggiati i gomiti su un cannone, cavò di tasca un taccuino e vi tracciò la disposizione delle truppe. Due punti segnò più forte con la matita, proponendosi di mostrarli a Bagration. A suo modo di vedere, bisognava aggruppare tutta l’artiglieria al centro e portare indietro la cavalleria, al di là del burrone. Trovandosi costantemente presso il generale in capo, seguendo i movimenti delle masse, le relative disposizioni, leggendo sempre descrizioni di battaglie, egli si rappresentò, in linea generale, le fasi eventuali delle prossime azioni. «Se il nemico, – andava ragionando fra sè, – attacca il fianco destro, i granatieri di Kiew e i cacciatori di Podolia dovranno sostenere la posizione fino all’arrivo delle riserve del centro. In tal caso i dragoni possono far impeto sul fianco nemico e sfondarlo. Se l’attacco si disegna al centro, noi collochiamo su questa altura la batteria centrale, e così protetti ci ritiriamo a scaglioni fino al burrone...» Udiva in questo mentre le voci degli ufficiali nella vicina baracca, ma non ne afferrava le parole. Di botto, una voce simpatica che gli parve riconoscere lo riscosse.

— No, no, caro mio, – diceva la voce, – io sostengo che se si sapesse quel che ci aspetta dopo morti, nessuno della morte avrebbe paura.

— Paura o non paura, non la si scampa, – rispose una voce più giovane.

— Eh, eh! voialtri delle armi dotte, – interruppe in tono di basso un terzo, che doveva essere di fanteria, – voi spaccate sentenze, sol perchè vi tirate sempre dietro acquavite e commestibili. Bella cosa la filosofia, a stomaco pieno!

— Sì, ma la paura c’e sempre, – riprese la nota voce. – Si ha paura dell’ignoto, ecco. Si ha un bel dire che l’anima se ne va in cielo... il fatto è che noi sappiamo benissimo che il così detto cielo non è in fondo se non l’atmosfera.

— Dico, Tuscin, – venne su di nuovo la voce di basso, – non ci regalate un sorso del vostro assenzio?

— Volentieri, – rispose Tuscin, – ma in quanto a comprendere la vita futura...

La frase gli fu spezzata a mezzo da un sibilo acuto, prolungato, sempre più vicino, sempre più rapido, che improvvisamente lacerò l’aria; e una palla, quasi non riuscendo a dire tutto ciò che doveva, percosse e si affondò con fracasso schizzando schegge e terreno, poco lungi dalla baracca. La terra parve tremare dall’urto poderoso. Tuscin, con la pipa in bocca, si slanciò fuori: era alquanto pallido. Emerse subito dopo l’ufficiale di fanteria, e si precipitò verso la sua compagnia, abbottonandosi nella corsa.

XVII

Il principe Andrea, rimontato in sella, guardava fiso al fumo donde il colpo era partito. Girava gli occhi per tutto l’arco dell’orizzonte. Le masse nemiche, testè immobili, si agitavano; quella di sinistra era veramente una batteria, e la si vedeva tuttora avvolta nel fumo. Due cavalieri francesi, probabilmente aiutanti, scendevano di carriera giù pel versante della collina. In giù, una piccola colonna moveva in rinforzo degli avamposti. Prima ancora che si disperdesse il fumo del primo colpo, un secondo scoppio echeggiò. Cominciava la battaglia. Il principe Andrea voltò briglia, e via di corsa verso Grunt per cercar di Bagration. La cannonata alle sue spalle si faceva più frequente e sonora. I nostri, evidentemente, rispondevano al fuoco. Al centro, nello spazio più stretto, crepitavano i fucili.

Lemarrois aveva appunto consegnata a Murat la lettera minacciosa di Bonaparte, e Murat, senza por tempo in mezzo, volendo riparare il vergognoso errore, avea spinto il centro e le due ali dell’esercito, sperando, prima dell’arrivo dell’imperatore, di schiacciare il debole distaccamento che gli stava davanti.

— Ecco, ci siamo! – pensò il principe Andrea, sentendosi tutto il sangue affluire al cuore. – Ma dove?... dove troverò, e che sorte avrà il mio Tolone?

Traversando quelle medesime compagnie, che testè mangiavano la zuppa e bevevano acquavite, notò dovunque un accorrere, un disfare i fasci dei fucili, un allinearsi frettoloso, un’animazione non dissimile da quella che lo agitava.

— Ecco, ci siamo! È terribile, ma comincia la festa! – leggevasi in volto ai soldati e agli ufficiali.

Prima di arrivare alle trincee in via di costruzione, vide venirsi incontro, nel crepuscolo della nebbiosa sera autunnale, un gruppo di cavalieri. Il primo, in casacca di pelo picchiettata, montava un cavallo bianco. Era il principe Bagration. Si fermò, gli fè un cenno di saluto, porse ascolto a quanto egli dicevagli di aver visto, seguitava a tener fisso lo sguardo davanti a sè.

Anche Bagration, sul viso abbronzato, dagli occhi semichiusi e quasi assonnati, aveva scritto le tre parole: «Ecco, ci siamo!» Il principe Andrea lo guardava perplesso, domandandosi: «pensa, sente quest’uomo dal viso impassibile? e che pensa? che sente?» Bagration chinò il capo in segno di assenso alle parole di lui, e disse semplicemente: «Sta bene» come se quanto gli si comunicava fosse per l’appunto quello che avea preveduto. Il principe Andrea, ansando per la corsa compiuta, parlava rapidamente. Bagration, col suo accento orientale, pronunciava le parole con singolare lentezza, come a voler significare che di affrettarsi non c’era bisogno. Spronò nondimeno il cavallo al galoppo verso la batteria di Tuscin. Il principe Andrea lo seguì con gli altri. Erano questi un ufficiale di stato maggiore, Gercow, un ufficiale di ordinanza, un altro ufficiale che montava un bel cavallo inglese, e un auditore, il quale per curiosità avea chiesto di assistere ad un attacco. Era un omaccione dalla faccia larga, e si volgeva intorno con un ingenuo sorriso di soddisfazione, sballottato sul suo cavallo; in mantello di cammellotto, a cavalcioni d’una sella del treno, faceva una strana figura fra gli ussari, i cosacchi e gli aiutanti.

— Gli è venuto il prurito di vedere una battaglia, ma già si sente male allo stomaco, – disse Gercow a Bolconski.

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