Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Guerra e pace. Ediz. integrale: краткое содержание, описание и аннотация

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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— Ma come mai non vi vergognate, capitano Tuscin? Come ufficiale d’artiglieria, dovreste dar l’esempio, mi pare... Se si dà l’allarme, bella figura farete, così scalzo come siete... Orsù, vogliate tornare ai vostri posti, signori, tutti, dico, tutti!

Il principe Andrea mal suo grado sorrise, guardando al capitano. Questi, muto e sempre sorridendo, ballonzolava sui piedi scalzi, e volgeva i grandi occhi buoni e intelligenti ora a lui ora all’ufficiale di stato maggiore.

— I soldati dicono che si sta meglio scalzi e si è più svelti, – disse timidamente, cercando di cavarsela con una facezia; ma sentì subito che la facezia era male accolta, e si turbò.

— Andate, andate, – ripetè l’ufficiale di servizio, sforzandosi di mantenersi serio.

Il principe Andrea tornò a guardare il capitano: non che aver l’aspetto guerriero, il povero Tuscin era più comico che altro, benchè simpatico anzi che no.

L’ufficiale e il principe Andrea rimontarono in sella e andarono oltre.

Traversato il villaggio, imbattendosi sempre in ufficiali e soldati di varie armi, videro sulla sinistra rosseggiare per fresca argilla le trincee in costruzione. Alcuni soldati, in maniche di camicia ad onta del vento freddissimo, vi brulicavano intorno come bianche formiche; dal fondo del fossato venivano spinte in su da mano invisibile palate di argilla. Osservate le trincee, i due cavalieri procedettero ancora, e incontrarono altri gruppi di soldati, che andavano e venivano, scomparivano fra i lavori di terra, ne sbucavano, si disperdevano nell’ombra. Si turarono il naso e spronarono, per uscir presto da quell’atmosfera inquinata.

— Ecco, principe, le delizie del campo! – disse l’ufficiale.

Ascesero sulla collina prospiciente, di dove già si vedevano i Francesi. Il principe Andrea fermò il cavallo ed osservò intorno.

— Su quel punto più elevato sta una nostra batteria, – disse l’ufficiale, – proprio la batteria di quell’originale di Tuscin. Di lassù si vede tutto. Andiamo, principe.

— No, grazie, posso ora andar da solo, – rispose questi, desideroso di sbarazzarsi della sua guida; – non vi disturbate, prego.

L’ufficiale si allontanò, e il principe Andrea proseguì la sua visita.

Più si avvicinava al nemico, più la tenuta delle truppe e il contegno erano migliori.

I soldati, con indosso i grigi mantelli, stavano in riga; il capitano contava gli uomini, toccando con un dito il petto del capofila e ordinandogli alzar la mano. Qua e là, altri ed altri soldati trascinavano legne e fascinotti e costruivano baracche, ridendo e chiacchierando. Intorno ai fuochi si aggruppavano uomini vestiti e nudi, che facevano asciugare camicie e camiciuole, mentre altri acconciavano scarpe o rammendavano mantelli, facendo cerchio intorno alle caldaie del cuciniere. In una compagnia era pronto il pasto, e i soldati con facce fameliche contemplavano le pentole fumanti, aspettando che l’ufficiale, a cavalcione d’una trave, assaggiasse dalla scodella di legno portagli dal cuoco.

In una compagnia, più felice delle altre, – poichè non tutte avevano acquavite, – il sergente maggiore, un omaccione spalluto e butterato, stretto in una cerchia di sitibondi, mesceva da un suo botticello nelle profferte gamelle. I soldati portavan queste con venerazione alle labbra, le arrovesciavano, si sciacquavano la bocca, se l’asciugavano con la manica, si allontanavano allegri. Tutti eran così tranquilli, come se non si trovassero di fronte al nemico, nella imminenza di un attacco, dove almeno la metà del distaccamento sarebbe rimasta sul terreno. Pareva che fossero in patria, al bivacco. Traversato il reggimento cacciatori e le file dei granatieri di Kiew, bella gente robusta, intenti tutti alle stesse pacifiche bisogne, il principe Andrea arrivò ad una baracca più alta, che era quella del colonnello, e poco discosto, sul fronte di un plotone di granatieri, vide disteso carponi un uomo nudo. Due soldati lo tenevano, due altri facevan sibilare flessibili bacchette, applicandogli colpi alternati sulla schiena. La vittima urlava. Un grasso maggiore andava su e giù sul fronte, e senza badare alle grida, diceva:

— È indegno d’un soldato rubare. Il soldato dev’essere onesto, nobile, coraggioso. Se ruba al camerata, vuol dire che onore non ne ha, che è un furfante... Ancora! ancora!

I colpi piovevano più fitti, le grida disperate si ripetevano: disperate più del bisogno.

— Ancora! ancora!

Un giovane ufficiale, turbato in viso, si scostò dal reo, e volse uno sguardo curioso all’aiutante che passava.

Il principe Andrea proseguì fino ai limiti del campo. I nostri avamposti e quelli del nemico, sul fianco destro e sinistro, erano abbastanza discosti; nel centro però, per dove i parlamentari eran passati, erano così vicini da potersi vedere gli uni con gli altri e perfino discorrere. Oltre i soldati, distiguevansi lì parecchi curiosi, i quali stupivano e ridevano osservando gli strani e non mai visti nemici.

Da questi curiosi, nonostante il severo divieto, non era possibile liberarsi, fin dalle prime ore del mattino.

I soldati, per conto loro, non guardavano più ai Francesi, facevano le loro osservazioni sugli estranei importuni, si annoiavano, aspettavano il cambio. Il principe Andrea fece alto.

— Guarda, guarda! – disse un soldato al compagno indicando un moschettiere russo che, insieme con un ufficiale, si era avvicinato ad un granatiere francese e parlava concitato. – Veh che scilinguagnolo! Come scarrucola! Il Francese non riesce a tenergli dietro. A te, Sidorow, spiega un po’ che dicono...

— Aspetta... Lasciami sentire. Perdiana, come corre! – esclamò Sidorow, che passava fra i compagni per maestrone di lingua francese.

Il soldato, cui accennavano, era Dolochow, venuto insieme col suo capitano dal fianco sinistro. Il principe Andrea lo riconobbe e prestò orecchio alla conversazione impegnata.

— Su, ancora, dagli! – lo incitava il capitano, curvandosi e sforzandosi di non perdere una sola di quelle parole per lui inintelligibili. – Più presto, più presto— Che dice?

Dolochow, scaldatosi nel battibecco col granatiere, non rispose. Discorrevano, naturalmente, della campagna. Il Francese, confondendo Russi ed Austriaci, sosteneva che sotto Ulma i Russi s’erano arresi o in parte salvati con la fuga. Dolochow ribatteva concitato che i Russi, non che arrendersi, aveano dato le batoste ai Francesi.

— Qui, – diceva, – abbiamo ordine di scacciarvi, e vi scacceremo.

— Badate che non vi piglino voi con tutti i vostri cosacchi, – motteggiava in risposta il granatiere.

L’uditorio francese si mise a ridere.

— Vi faremo ballare, come vi fece ballare Suvorow, – disse Dolochow.

— O che sfringuella lì? – domandò un Francese.

— Storia vecchia, – spiegò un altro. – L’imperatore la farà pagar salata al vostro Suvorò e a tutti i suoi pari.

— Bonaparte...

— Ma che Bonaparte?... l’imperatore, dico, che il diavolo vi pigli!

— Che lo pigli lui un accidente il vostro imperatore!

E Dolochow, attaccando moccoli su moccoli, si mise il fucile in ispalla e si allontanò.

— Venite via, capitano Luchic.

— Sicchè, questa è la parlata francese, – dissero ridendo i soldati. – A te ora, Sidorow, fatti onore!

Sidorow strizzò un occhio, si volse ai Francesi, e prese a scarrucolare parole incomprensibili, cercando col tono della voce di renderle espressive:

— Cari, malà, tafà, safì, muter, cascà...

— Oh, oh, oh!... ah, ah, ah!... Uh! uh! – scoppiò una risata così sonora, così irrefrenabile e contagiosa, che pareva non rimanesse altro a Russi e Francesi se non scaricare i fucili e tornarsene alle case loro. Ma i fucili rimasero carichi, le feritoie delle case e delle trincee guardarono sempre minacciose, i cannoni puntati bocca contro bocca stettero immobili ed arcigni.

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