La persona massiccia di Nesvizki seguìta dal suo cosacco, e la sciabola di Denisow, permisero loro di traversare il ponte. Nesvizki trovò allo sbocco il colonnello, cui doveva trasmetter l’ordine, eseguì l’incarico e voltò briglia.
Spazzata la strada, Denisow si piantò in capo al ponte. Frenava con mano disinvolta il puledro impaziente e guardava allo squadrone che s’avanzava. Le assi del ponte rintronarono sotto le zampe ferrate dei cavalli. Lo squadrone, con gli ufficiali alla testa, marciando per quattro, cominciò ad uscire dall’altra parte del ponte.
I soldati di fanteria, affollati e coi piedi nella mota, guardavano agli ussari lindi, eleganti, bene ordinati, con quello speciale senso di antipatia e di sarcasmo che è proprio dei vari corpi di esercito, quando s’incontrano.
— Che gala, eh? dei bellimbusti veri e propri!
— Si sa... Soldati di lusso, buoni per la parata!
— Ohè, fantaccino, non far polvere! – motteggiò un ussaro, che con le zampe del cavallo aveva impillaccherato un soldato di linea.
— Se avessi fatto due marce con lo zaino addosso, non saresti mica così lustro, – ribattè questi asciugandosi con la manica il viso. – Bell’uccellone costì a cavallo!
— E tu monta in sella, e galoppa... Non hai che da pigliare una mazza e metterti a cavalcioni!
A passo accelerato, il resto della fanteria traversò il ponte, sboccando e allargandosi dall’altra parte a foggia d’imbuto. Passarono poi i carriaggi, la ressa scemò, e l’ultimo battaglione prese a sfilare. I soli ussari dello squadrone di Denisow restarono in capo al ponte di fronte al nemico. Questo, visibile dall’alto del monte dirimpetto, era nascosto a coloro che si trovavano in giù da un’altura non più di mezza versta distante. Una radura stendevasi fino alle falde di quella, per la quale qua e là si aggiravano le nostre pattuglie di avanscoperta. Di botto, in cima all’altura, comparvero dei cappotti azzurri e dei pezzi di artiglieria. Erano i Francesi. Una pattuglia di cosacchi indietreggiò a galoppo verso la valle. Tutti gli ufficiali, tutti gli uomini dello squadrone, benchè si sforzassero di discorrer di altro e di guardare indifferenti da tutte le parti, non cessavano di pensare esclusivamente a quanto avveniva sull’altura, e senza pur saperlo, si volgevano ad ogni poco verso le macchie azzurre emergenti sull’orizzonte, riconoscendole di primo acchito per truppe nemiche. Il cielo erasi rischiarato dopo il mezzogiorno; il sole declinava fulgido sul Danubio e sulle cupe montagne circostanti. Regnava una calma solenne, rotta di tanto in tanto da grida lontane e squilli di tromba. Tra lo squadrone e il nemico, non più di settecento metri distante, non c’erano oramai che rade pattuglie. I Francesi avean cessato il fuoco, e tanto più spiccata sentivasi quella linea cupa, minacciosa, inaccessibile, indefinita, che separa l’uno dall’altro due eserciti nemici.
«Di là da quella linea, l’ignoto: l’ignoto della sofferenza e della morte. Che si cela laggiù? che cosa mi aspetta? là, di là da quel campo, dietro quell’albero, dopo quel tetto illuminato dal sole? Nessuno lo sa, eppur si arde di penetrare il mistero... Si paventa e si brama di varcar la linea fatale, e si è certi che prima o dopo sarà forza varcarla, e si vedrà quel che dietro vi si asconde, come è inevitabile scoprire un giorno quel che si asconde di là dalla morte. E tu senti ribollire in te la forza, la salute, la vita, l’istinto pugnace, e sei circondato da altri come te sani, forti, bollenti, impazienti di lotta». Tale è il sentimento, se non il pensiero, di ogni uomo che si trovi al cospetto del nemico; e questo sentimento conferisce uno speciale fulgore, una giocondità spiccata d’impressioni a quanto accade in quei momenti di trepida attesa.
Un lieve fumo si levò sull’altura prospiciente, e una palla volò sibilando sulla testa dello squadrone. Gli ufficiali, che avean fatto gruppo, corsero ai loro posti. Gli ussari presero ad allineare i cavalli. Tutto fu silenzio. Gli occhi erano fissi al nemico e al comandante dello squadrone. Una seconda palla e una terza fischiarono, passarono il segno, caddero lontano. Gli ussari non si voltavano, ma ad ogni sibilo che lacerava l’aria, tutto lo squadrone con atto simultaneo si rizzava sulle staffe e ricascava in sella. I soldati l’un l’altro si sogguardavano, osservando curiosi l’impressione del compagno. Su tutti i visi, da Denisow al trombettiere, apparve nelle labbra e sul mento un tremolio di ira repressa e d’impazienza di lotta. Il maresciallo d’alloggio, corrugata la fronte, guardava ai soldati come se minacciasse un castigo. Mironow, alfiere, si curvava ad ogni passaggio di granata. Rostow, sul fianco sinistro, montato sull’azzoppato ma vistoso Corvetto, aveva l’aspetto felice di uno scolaro, chiamato ad un pubblico esame, nel quale è sicuro di distinguersi. Volgeva qua e là gli occhi vivi e sereni, quasi pregasse di badare con quanta tranquillità egli stava al fuoco. Ma anche in lui, mal suo grado, mostravasi quella linea tremolante di aspettazione sul mento e sulle labbra.
— Chi si curva laggiù? che inchini son cotesti? Alfiere Mironow, smettete! Guardate a me! – gridò Denisow, che non potea star fermo un momento e caracollava sul fronte dello squadrone.
La faccia scura e schiacciata di Denisow era sempre la stessa; e così pure la piccola persona robusta, dalla mano muscolosa e pelosa, che stringeva l’elsa della sciabola sguainata. Pareva sempre il Denisow di tutte le sere, specialmente dopo vuotate un par di bottiglie. Più rosso del solito, alzava la testa ricciuta, come fanno gli uccelli nel bere, cacciava spietato gli sproni nei fianchi di Beduino, voltava briglia, galoppava gettandosi col busto indietro, urlava con voce rauca, che si esaminassero le pistole. Veduto Kirsten, gli corse incontro. Il capitano si avanzò alla sua volta, al passo tranquillo della sua grassa giumenta. Era serio come sempre, soltanto più del consueto gli luccicavano gli occhi.
— Scommetto, – disse, – che non si verrà alle mani. Vedrai che si torna indietro.
— Lo sa il diavolo quel che fanno! – brontolò Denisow. – Ah, ah, Rostow! sei contento ora?... Ci siamo...
In quel punto apparve sul ponte il generale. Denisow, in un lampo, gli fu davanti.
— Eccellenza! Si attacca? Una brava carica e ne sfondo le linee...
— Ma che attacchi andate sognando! – rispose il generale facendo il cipiglio fastidito di chi scacci una mosca. – E che fate voi costì? che aspettate? Non vedete che gli esploratori ripiegano? Indietro lo squadrone!
Lo squadrone ripassò il ponte e uscì fuori di tiro, senza perdere un sol uomo. Passarono poi il secondo squadrone, che era agli avamposti, e gli ultimi cosacchi.
Il colonnello Carlo Bogdanic Sciubert si avvicinò di passo allo squadrone di Denisow, non molto discosto da Rostow, non badando nè punto nè poco a costui, benchè dopo il battibecco a motivo di Telianin si vedessero ora per la prima volta. Rostow, sentendosi sotto il potere dell’uomo davanti al quale sapeva di esser colpevole, non toglieva gli occhi dalle spalle atletiche, dalla bionda nuca, dal collo rosso di lui. Ora gli pareva che Bogdanic facesse solo le viste di non badargli e che volesse vederlo al fuoco e sperimentarne il coraggio: e allora si rizzava in sella e si volgeva intorno con faccia serena; ora si figurava che il colonnello cavalcasse così vicino sol per far pompa della propria bravura. A momenti, si aspettava anche di dover partecipare ad una carica disperata, di esser ferito, di vederselo davanti, e che il magnanimo nemico gli porgesse la mano in segno di perdono e di riconciliazione.
Gercow, le cui spalle quadre erano ben note a tutto il reggimento (dal quale testè era uscito), si avanzò verso il colonnello. Escluso dallo stato maggiore, avea piantato i compagni, dicendo di non esser così balordo da sfacchinarsi sotto le armi, quando invece avrebbe potuto starsene in panciolle e buscarsi il doppio di stipendio; e tanto avea fatto, da esser nominato ufficiale di ordinanza del principe Bagration. Veniva ora dal suo primo superiore con un ordine da parte del comandante la retroguardia.
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